Nel 1939 ero una recluta che scattava come una molla: ragazzo non ancora diciottenne e volontario “Aspirante Allievo Sciatore Rocciatore” alla “Scuola Centrale Militare d’Alpinismo Duca degli Abruzzi” di Aosta, compagnia alfieri. La Patria, i Sacri Confini, gli Alpini, L’Obbedienza cieca, pronta e assoluta, la ginnastica, la palestra di roccia, l’ordine chiuso, l’istruzione sulle armi, il manuale del caporale, il giuramento a Sua Maestà il Re Imperatore e ai suoi Reali Successori; e poi le ascensioni sulle più alte vette delle Alpi, i raid sciistici, tutte queste cose, avevano riempito quasi tutto il mio cervello. Fu allora, in quel Malissimo 1939, che in primavera, in Italia, vennero richiamate alle armi alcune classi anziane per addestramento o come “prova” di mobilitazione per il Regio Esercito. Ricordo le caserme di Aosta che rigurgitavano di tanti richiamati; i cortili, le camerate, i magazzini erano ricolmi della loro tristezza che faceva contrasto con la nostra incoscienza di “scattanti”. Arrivavano immusoniti, a gruppi silenziosi; scendevano dai treni con poveri fagotti legati con lo spago o misere valigette di fibra che prima avevano contenuto i libri scolastici dei figli. Avanti di presentarsi in caserma mettevano insieme qualche lira per bere un litro di vino in osteria. I più, entrando, non salutavano la sentinella e poi, una volta presi dalla spire della naia, si guardavano attorno sconsolati. Gli ufficiali cercavano di inquadrarli per dare loro una parvenza militaresca; i loro occhi si animavamo un po’ quando in qualcuno di questi ufficiali riconoscevano un richiamato come loro, o del loro paese: un maestro elementare, il segretario comunale, un ragioniere della banca; allora trovavano anche qualche parola per poche domande nel loro dialetto: Dove ci mandano? Quanto ci terranno qui? Ci sarà la guerra? Ma questo richiamo delle classi anziane aveva provocato non poca confusione nell’Amministrazione Militare: molte volte le marmitte non avevano rancio a sufficienza per tutti, altre volte i forni non riuscivano a sfornare sufficienti pagnotte; anche i magazzini non avevano scarpe, corredo, armi. O, se c’erano, erano in altri luoghi, in altre città. E cosi vedevi degli uomini vestiti in parte con abiti militari e in parte con abiti civili. Quello che più di tutto risaltava nel loro abbigliamento erano le scarpe di cuoio giallo e duro che facevano dolorare i calli ai loro piedi di richiamati. Era triste e faceva malinconia anche a noi, in quelle sere della primavera 1939, vedere questi uomini ingrigiti e goffamente vestiti andare in libera uscita portando a spasso la loro tristezza. Camminavano a gruppi lasciando dietro loro una scia di naftalina, parole sussurrate di confidenze per spose e figli lasciati nel paese con problemi di lavoro e di cibo. Non avevano, no, ambizioni di penne lunghe sul cappello, di gradi sulle maniche, di divise attillate; cercavano strade nascoste ai passaggi cittadini per non incontrare ufficiali a cui era doveroso il saluto e le osterie più economiche dove mangiare una zuppa di trippe con la mezza pagnotta tenuta nascosta sotto la mantellina. Ricordo il loro dispetto e il nostro imbarazzo quando (ero assieme ad un caro amico che poi è caduto in Russia) una sera alcuni di loro, incrociandoci, ci indirizzarono un goffo saluto scambiandoci per sottotenentini di prima nomina. Anche Tono Zancanaro, classe 1906, venne richiamato in quel 1939, anche Tono pittore di grande umanità, mentre gli Stati Maggiori dell’Asse studiavano i piani di guerra, mentre le grandi industrie programmavano l’aumento degli armamenti e gli ingegneri progettavano nuove armi. Anche lui prese il treno alla stazione di Padova, con un fagotto che gli aveva preparato mamma Colomba; anche lui, imprecando (e chi lo ha conosciuto può immaginare come) varcò la porta di una caserma dopo un viaggio notturno duro e insonne in una carrozza di terza classe sferragliante e nera di fumo; anche lui, poi, trovò qualcuno che voleva sbatterlo sull’attenti e consegnarli un fucile; metterlo in rango; segnare il suo tempo con i segnali della tromba. E cosa poteva fare Tono se non disegnare la sua disavventura di richiamato nel Regio Esercito? Ora quei suoi disegni sono stati ritrovati e ci testimoniano come un raro documento, un documento immediato e importante, quel tempo folle e disumano. Ma che malinconia, anche, in questi disegni! Che rabbia, anche! Se i miei appunti di allora farebbero sorridere per la loro ingenuità, questi disegni di Tono sono, come la verità, sconcertanti. Non hanno la forza lacerante e cruda di Georges Grosz, ma qualcosa di ancora più tragico perché la loro forza sta nello squallore della caserma, del vuoto di quel tempo, della mancanza di una qualsiasi morale. Chi conosce le opere di Tono nei suoi vari cicli, ritrova qui un Tono inedito: dopo le biciclette e i portici padovani, dopo le Levane, lo stuzzica denti, le Belle in Pra’ le mostruosità del Gibbo, le Brunalbe, le Circi, le Mondine, i Fiori di Loto, i Carusi, le illustrazioni per la Divina Commedia o per La guerra delle salamandre, tutti i mille e mille disegni, incisioni, litografie, ceramiche, vetri incisi, questo Tono soldato è quello che sento più vicino, più vero, più poeta, più testimone di un tempo amaro e triste. A cominciare da quella fotografia dove lo vediamo seduto su uno scalcinato muro di caserma, inerme, il volto tirato e gli occhi non “fissi in avanti” come voleva la posizione dell’attenti, ma pensosi come già vedessero tutte le stragi e le nefandezze della follia fascista. Dietro la sua testa, su una saracinesca, si legge VIVERE PERICOLOSAMENTE e in basso, sulla foto, scritto con la sua calligrafia: Tono pittore/risoldato 1939.Caserme silenziose nel meriggio, cortili vuoti, alberi sopra i tetti senza nidi; soldati sdraiati sulle brande, con le scarpe bullettate ai piedi e la bustina in testa; gli occhi socchiusi per l’intontimento dell’istruzione in ordine chiuso e per la melanconia di casa; soldati che riposano sotto gli archi di quello che era un chiostro di convento prima di diventare caserma. Soldati al lavatoio per risciacquare la gamella. Ma mai, mai soldati d’aspetto marziale, in atteggiamento bellicoso o ginnico: non esercitazioni con le armi, non tiri al bersaglio, non sentinelle o alza bandiera; pochissime le armi nei disegni di Tono, e quando compaiono sono li come oggetti morti, inutili, non sono le armi “nude e vive” di dannunziana memoria. Restano li come ramazze a guardia delle latrine “chiudere sempre”, Nei soldati di Tono non si riesce e vedere un aspetto non dico marziale ma nemmeno appena appena soldatesco alla Ruzzante: sono proletari e contadini con il pensiero in ben altre cose che la patria o il dovere; sono volti che soffrono e che per attutire la sofferenza si assopiscono per non ascoltare o eseguire ordini. Sono quelli che nel gergo di caserma sono chiamati i lavativi. Questi quasi quarantenni hanno nella loro memoria la Grande Guerra, la febbre spagnola che portò via tanti loro fratelli, la fame, il lavoro che non si trovava, l’emigrazione. Ma che silenzio in quelle camerate disegnate da Tono! Che aria disfatta, che ronzio di mosche, che puzza di sudore e di naftalina! Nemmeno la tromba riesce a smuovere quest’aria; nemmeno i sergenti naioni riescono a smuovere questi richiamati per prova guerresca. Che odore di iodio e d’urina nelle infermerie dove anche Tono, dopo aver marcato visita (lo leggiamo nei suoi disegni!) si è fatto ricoverare per stare un poco con se stesso. E che scritte! Quelle scritte che lui riproduce e che valgono un racconto; e che nessun ufficiale in SPE o ufficiale richiamato iscritto al PNF riesce a far cancellare o anche solamente capire: Divieto di cacciare la mosca, Divieto di caccia e pesca, W il congedo. Ma più di tutto sono quei disegni che ritraggono i soldati che dormono nelle camerate, o in treno, o nei cortili, che più hanno colpito la mia memoria: dormono abbandonati, pesanti, senza sogni. Come poi li ho visti dormire per sempre sulle montagne dell’Albania, o nelle steppe della Russia, o nei Lager della Germania. Lui, Tono richiamato, come tutti i veri artisti e i poeti aveva intuito tutto questo prima che avvenisse.