Un filo lega tutto il percorso artistico di Nando Celin, quel filo, bisogna pur dirlo, si sviluppa lungo un itinerario complesso, che segue, o meglio ricalca con precisione, gli sviluppi e le modificazioni delle idee dell’artista, e dei suoi sentimenti. Da quando Celin ha identificato i momenti fondamentali del suo repertorio, la figura femminile, Venezia ed il mondo Divino, ha anche individuato un modo di procedere che gli permette di coordinare energie creative che non appartengono soltanto all’immagine pittorica, ma si manifestano in coincidenza con il suo essere.

Il viaggio di Nando Celin dura da oltre vent’anni, da quando, con un coraggio che è ai limiti dell’incoscienza, lascia il lavoro sicuro da travet in banca per veleggiare verso la libertà e l’insicurezza dell’artista, con lo scopo (non dichiarato) di esprimere al mondo il suo pensiero, che è caratteristica dell’Artista l’avere il coraggio di mostrare in pubblico non solo il prodotto della sua abilità tecnica (e Celin conosce la storia dell’arte, le tecniche artistiche, l’uso del pennello e dei colori, e quant’altro gli serve per esprimersi), ma anche, e direi soprattutto la sua anima, i suoi sentimenti, le sue passioni.
In breve tempo, molto più breve di quello che hanno avuto la maggioranza dei suoi colleghi, ha attraversato le esperienze del suo tempo (astrattismo, nuovo realismo, mec.art, nuova figurazione, nuova oggettività, pop-art, iperrealismo, …) senza però esserne coinvolto, anzi uscendone, in un tempo come il nostro pieno di superficiali irritazioni sensoriali, trionfalmente con una “sua” tecnica, pur rivolgendosi a soggetti che da sempre sono presenti nel lavoro dell’artista: la donna, il paesaggio, la divinità.
Quindi sono tre i soggetti preferiti da Nando Celin: i paesaggi (principalmente Venezia), il nudo femminile, i santi. Non sempre in questo ordine.
Uno il motivo che collega questi temi, così diversi fra loro: l’uso praticamente di un solo colore. il bianco. Tanto che in molti casi si può parlare effettivamente di pittura monocroma.
E’ pur vero che il bianco è la somma di tutti gli altri colori, ma la scelta (al di là delle motivazioni che lo stesso Celin offre con l’esigenza di cercare/offrire delle “novità” nel campo della pittura, quindi nella ricerca di una sua nicchia, dove creare qualche cosa di nuovo, di unico, senza riprendere tecniche di maestri che pure conosce e rispetta) è certamente più profonda, e non solo tecnico/culturale, e forse va ricercata nelle sue opere a tema religioso, dove candide sono le figure della Madonna o di Padre Pio, mentre la folla di fedeli è meno candida. Dante ha descritto queste sensazioni nel ventiduesimo canto del Paradiso:

“…
e se guardi ‘l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov’è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno
…”

dove il passaggio dal bianco al bruno viene interpretato come il peccato originale, che ha sporcato, noi non colpevoli, il nostro cammino; oppure i peccati nei quali siamo mano mano caduti durante la nostra breve esistenza, che hanno reso via via meno candida la nostra anima.
La ricerca di una motivazione religiosa, in un epicureo praticante quale è Nando Celin (…I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca. Epicuro, Lettera sulla felicità) è certo alla base di una più profonda riflessione morale sul nostro mondo, sullo stile di vita e sulla società contemporanea.
Non a caso, credo, la sua ricerca tematica rifugge dai riferimenti del quotidiano (bisogna dargli atto che attualmente ben poco di poetico si intravede attorno a noi)
Celin lavora in monocromo, quindi in unicità di colore (anche se come ricordato il bianco è la somma di tutti i colori), ma non in unicità di luce, che varia continuamente dall’alba al tramonto, fino a che la notte non assorbe anche il bianco, in una metafora della vita.
Anche il bianco esiste in mille sfumature diverse, quindi è difficile parlare di monocromo.
Diciamo pure che per Celin il colore è il bianco, ed il bianco è il colore dello spirito, della purezza, (ma anche, in altre culture, della morte). In questo modo Celin ribalta la classificazione fatta da Kandinsky, che situava nell’azzurro i valori evocativi e simbolici del cielo e dell’infinito. Per Kandinski il bianco delimita (e assorbe) i colori: si veda al riguardo il “Dipinto con bordo bianco”. Per Celin il bianco è il riferimento della luce piena, della vita, e per questo i suoi nudi femminili risplendono bianchi sul bianco dello sfondo, come se la loro purezza fosse sempiterna.
Il bianco come qualità solare, che al mattino è una venatura trasparente quasi impercettibile nel chiarore dell’alba, e che alla sera si bagna di rosso sangue, prendendo tutti i colori possibili, assorbendoli, e sprofondando nel nero della notte.
Così la monotonia cromatica della pittura di Celin è solo apparente, perché in realtà la sua opera è piena dei colori dell’iride, e nel bianco dei corpi sono presenti le sfumature della carne, dal rosa pallido del riposo al rosso violaceo dell’eccitazione
Nando Celin ha fatto suo il concetto di bellezza descritto da Johann J. Winckelmann: “Il disegno del nudo si fonda sulla conoscenza e sui concetti di bellezza, e questi concetti consistono in parte nelle misure e nei rapporti, in parte nelle forme la cui bellezza era lo scopo dei primi artisti greci, come afferma Cicerone: queste formano l’aspetto, mentre le misure e i rapporti determinano  le proporzioni […]
La bellezza è percepita dai sensi ma è riconosciuta e compresa dall’intelletto, anche se così i sensi sono resi spesso meno sensibili, diventando però giusti su tutte le cose. (in: Storia dell’arte dell’antichità)”
I nudi di Celin, pur profondamente sensuali, sono casti, mostrati ma non esibiti. Anche la Susanna callipigia circondata da nove vecchioni, che pur non cerca di nascondersi, induce più tenerezza che tentazione. Eppure l’erotismo è sempre prorompente, e spesso i volti sono quelli di Lilith, prima moglie di Adamo, tentatrice di tutti gli uomini, impersonante la sessualità femminile cosciente e libera e perciò terrorizzante per l’uomo.
La relazione che l’uomo ha con il paesaggio è profondamente cambiata negli ultimi cinquant’anni, abbiamo assistito ad un profondo radicamento della industrializzazione e meccanizzazione, ed oggi l’uomo non si adatta più all’ambiente, ma cerca di adattare l’ambiente alle sue necessità, reprimendo la natura e sostituendola con un mondo artificiale, meccanico, costruito. Come conseguenza per l’artista sensibile non è più possibile dipingere la natura come, ad esempio, fecero gli impressionisti a cominciare da Claude Monet. D’altra parte anche schematizzare l’ambiente riportandolo ad una struttura primordiale, semplificata, come Andrea D’Aterno, vuol dire togliere al paesaggio urbano quel tanto di “artistico” che l’uomo ha saputo imprimergli.
La scelta fatta da Nando Celin risente della impossibilità attuale di dipingere la natura “vera” di Monet, e d’altra parte c’è il rifiuto sia del mondo primordiale di D’Aterno, sia del mondo attuale. Ecco che si rifugia allora nella sua Venezia, e la dipinge com’è, ma sempiternamente immersa nel candore della luce dell’alba, o forse sommersa da una di quelle nebbioline che hanno il potere non di nascondere cose e case, ma di trasformarle, di addolcirne gli spigoli, ammorbidendoli, rendendoli femminili.
Sono quadri pieni del silenzio dell’alba, dove le gondole passano frusciando appena su di una laguna lattea, macchia bianco su di uno sfondo bianco, per andare verso un sogno.