Venezia mi vede nascere nel 1946. Già alla scuola media inferiore, che frequento presso i padri Cavanis all’Accademia, le mie nature morte a carboncino, fatte dal vero in classe, sono prese a esempio dal professore di disegno. Passo poi all’Istituto Tecnico per Ragionieri Paolo Sarpi. Proprio allora, quattordicenne o poco più, incontro in Piazza San Marco Elio Lazzari, di circa un lustro più vecchio, che, dietro al suo cavalletto, con occhiali scuri, camicia a quadretti bianchi e azzurri, cappello di paglia e l’eterna NS blu fra le labbra, ritrae palazzi e rive, cieli ed acque, partendo con viola, gialli e rosa eclatanti, riconducendo, alla fine, il tutto ad un gradevole equilibrio. Ne rimango affascinato e, tornato a casa, con dei colori da quattro soldi, tento di riprodurre i lavori tanto ammirati.
Vengono poi gli anni della morosa, del diploma, del militare e del posto fisso. Non mancano l’iscrizione a Ca’ Foscari, alla facoltà di Economia e, naturalmente, il matrimonio.
E la Pittura? Pur restando sempre presente, la frequento saltuariamente. In seguito al matrimonio e al trasferimento a Mestre, cado preda di una struggente nostalgia per la mia Venezia, che da questo momento diviene il tema centrale dei miei tentativi pittorici, specialmente nelle notti in cui non ho proprio voglia di stare sopra i libri di diritto o di economia. Per una persona che vi è nata, Venezia è come la propria Madre, di cui ci si accorge quando manca, perciò dico sempre che dal 1970 mi sento apolide. Mi mancano alla vista l’acqua, le calli, el liston in Piazza, gli amici con le ombre e i cicchetti, le ciacole, le risate e le prese in giro, le discussioni di politica fatte di notte in campiello.
Ho circa ventotto anni quando vengo ricoverato al reparto malattie infettive dell’Ospedale Umberto I di Mestre con il tifo e il mio fedele libro di Matematica. Mi viene a trovare un amico fraterno: da poco ha aperto uno studio di commercialista e mi offre di entrarvi come socio. È il sogno di tutti quelli che studiano e lavorano nel campo economco. Mi riservo di dargli una risposta. Le giornate sono lunghe in ospedale e, pensa e ripensa, arrivo all’ovvia conclusione che fare il commercialista vuol dire interessarsi dei fatti degli altri e, purtroppo, non mi vedo in questa veste, proprio io che curo poco e a fatica i casi miei.
Una volta dimesso, ringrazio l’amico per l’affettuosa offerta, ma la declino. Abbandono l’Università e la decina di esami già sostenuti reputando, a questo punto, superflua anche la laurea. Mi iscrivo al corso di nudo “Ettore Tito” tenuto dal prof. Missaglia e dipingo durante la notte.
Cominciano i primi concorsi, gli ex tempore, le collettive e, finalmente nel 1976, la prima mostra personale alla galleria CDE di Mestre, in concomitanza con la nascita di mio figlio Francesco.
È circa in questo periodo che fondo con i pittori Bovo, Spanio, Moretti e Siebessi il circolo culturale Gruppo 5. Il circolo ha una propria galleria e riesce a guadagnarsi una certa visibilità, ma il sodalizio dura poco tempo, per diversità di vedute, di formazione e di gestione, inducendomi a seguire una strada solitaria e indipendente.
In seguito alla personale del 1978 alla galleria Bottega di Omiccioli in via Margutta a Roma, conosco Vittorio Esposito. Questi si occupa della pagina artistica del giornale “Italia Sera” e di altre testate e agenzie giornalistiche. Frequentazioni comuni rafforzano la stima e l’amicizia fra noi due, tanto che Vittorio si attiva per organizzare alcune mie mostre a Roma e a Tivoli, sostenendomi sempre dalle colonne dei suoi articoli.
Curioso di tutto ciò che riguarda l’arte pittorica, mi documento leggendo testi specialistici e frequento quante più mostre possibili. Sperimento tecniche diverse, anche la calcografia, acidando le lastre sul terrazzino di casa e scaldandole sul gas della cucina.
Nei primissimi anni Ottanta, per un caso fortuito, entro in contatto con il laboratorio serigrafico di Barbato e incontro la Serigrafia, per cui nutrirò una passione incondizionata.
Rubo un po’ alla volta la tecnica al serigrafo stampando, a mie spese, vari lavori e pretendendo di intervenire di persona nell’esecuzione delle matrici e delle fasi di stampa.
Entro subito nella materia, che sento così congeniale, studio e mi informo, arrivando alla conclusione che la serigrafia non può essere la fotocopia colorata di un quadro, così come viene trattata dal mercato, ma deve essere il frutto di matrici fatte rigorosamente dall’artista e non dall’artigiano serigrafo fotograficamente, il quale deve solo stampare. Parlo di stampa (serigrafia o litografia) originale: questo è ciò che insegnano i trattati di grafica!
Successivamente elaboro il concetto di Pittura serigrafica. Penso che il processo di produzione serigrafica debba svilupparsi senza seguire pedissequamente un modello preconfezionato, il quadro; credo invece che si debba costruire il soggetto, colore per colore, lastra per lastra, seguendo le necessità e l’estro artistico del momento, salvando il principio hic et nunc proprio dell’opera d’arte.
Intanto gli anni passano e sono sempre più preso dalle mie cose: di giorno in banca, di notte in studio, sabato e domenica passati fra concorsi e mostre. La crisi matrimoniale sfocia, nel 1987, nella rottura. Cocente è il dolore del distacco da mio figlio. Per fortuna ritroverò il suo affetto qualche anno più tardi, in un incontro fra persone adulte che tutto hanno compreso.
Incontro poi Adriana, che mi ridà la gioia di vivere in una compenetrazione di anime fatte per intendersi. È il 1990 quando Adriana, visto che non sopporto più il mio impiego, mi dice: «Se la banca ti è stretta e non ne puoi più, vola: ci sarò sempre io a sostenerti!».
E io prendo il volo. Con la buona uscita mi costruisco una villetta in riva alla laguna a Lughetto.
Qui esprimo tutto il mio pragmatico eclettismo: disegno i progetti, faccio l’idraulico, il falegname, il posatore, affresco e decoro la cucina, le camere, i bagni e i caminetti.
Anche in relazione all’affresco metto a punto una nuova tecnica, perché osservo che il grassello di calce, con un po’ d’olio dato a fresco sulla malta, conserva per un periodo abbastanza lungo la proprietà della carbonatazione.
Negli anni Novanta organizzo un mio laboratorio di serigrafia, stampando da solo i miei lavori. Grazie a questa indipendenza metto a punto il concetto di Monotipo serigrafico, dove i singoli esemplari hanno la stessa iconografia, ma differiscono visibilmente tra loro. È una tecnica unica nel suo genere, dove l’intervento manuale dell’artista prima, durante e dopo la stampa, nonché i cambi di inchiostro durante la stampa, oppure l’apertura o la chiusura di certe zone del telaio, danno dei risultati cromatici e materici dissimili pur con lo stesso soggetto.
Nel 1996, all’Accademia di Belle Arti, ottengo il diploma in Pittura e Disegno con voto 107: un bel regalo per il cinquantesimo genetliaco! Proprio con la tesi di laurea, discussa all’interno di una mostra personale in Accademia, nasce la tecnica del Bianco su bianco, dove leggere differenze di tonalità del bianco, concorrono alla formazione di lavori strettamente figurativi, come in tutta la mia produzione. La sensazione cromatica nulla ha da invidiare all’uso dei colori. Conferma della bontà della nuova tecnica viene dall’apprezzamento dei professori e grande soddisfazione deriva anche dall’entusiastica partecipazione dei custodi e dei bidelli, solitamente estranei a questi frequenti avvenimenti.
Subito dopo c’è l’incontro con Manlio Gaddi, responsabile dell’Archivio Storico Tono Zancanaro, con cui mi scopro presto molto affine, per gusti artistici, politici, etici e per un savoir vivre, che comprende anche convivialità e allegria: è subito amicizia.
È il momento di belle mostre sia collettive sia personali, coronate da questa per il trentacinquesimo anno di attività espositiva.
E per il futuro? A sessantacinque anni l’entusiasmo scema e cresce l’artrosi: ma non ci sarebbe da meravigliarsi nel vedere un gabbiano artrosico spiccare il volo nel cielo lagunare verso chissà quali mete.