Che faccia avevi prima che nascessero i tuoi genitori? (Zen Kōan)

“Ha solo 10 anni Claudio quando vede, a scuola, su di un poster, la riproduzione di un piccolo frammento di un’opera di Hieronymus Bosch. Non c’è una didascalia, non un nome, egli crede trattarsi di un’opera moderna. Ne è affascinato, ammirato; l’immagine si imprime profondamente in lui, molcendo il suo cuore.” (Emanuela Catalano)


Anni dopo durante una visita al Monasterio de San Lorenzo del Escorial un nuovo impatto con il pittore che, al primo incontro, aveva creduto del nostro tempo: “Il Cristo Portacroce” un dipinto neppure troppo grande, ma che rimette in contatto Claudio Giulianelli con Hieronymus Bosch. Il quadro, più noto forse come “La salita al Calvario”, mette in scena la ferocia e la bestialità della folla quando ad essa vengono offerti spettacoli sanguinari, come in questo caso la crocifissione di Gesù: la tavola è popolata da volti deformati, quasi maschere grottesche con una intensa gamma di smorfie, a cercare di rappresentare tutte le malvagità e le bassezze dell’uomo.
È di difficile interpretazione la strada percorsa per giungere alle opere qui presentate, che apparentemente hanno in comune con Bosch solo un universo immaginario fantastico. In queste opere pare che le ossessioni, e forse le paure, dell’artista abbiano avuto un ruolo tanto importante quanto il suo desiderio di giocare, di mistificare cose ed eventi. Egli mescola sogno e realtà, attribuisce ad oggetti d’uso comune tratti che possono apparire diabolici, popola le scene riprodotte nei suoi quadri con caricature, maschere, figure grottesche e appunto oggetti di uso comune, su uno sfondo leonardesco, in un dialogante rapporto con la Natura
Giulianelli popola i suoi quadri di un universo di travestimenti, e la figura principale è un giullare, anzi una giullaressa, essendo tutte donne i personaggi più in Le solite storie, 2015, acrilico su cartoncino 25 x 25vista nelle sue opere. I rapporti di Giulianelli con le donne sembrano contradittori: da un lato egli sembra diffidarne perché maschera di carne, presto destinata a divenire una maschera di carta pesta, dall’altro sembra venerarle in quanto la donna rappresenta l’Arte in maniera trionfale.
Per Giulianelli il travestimento significa freschezza di tono, acutezza espressiva, decoro sontuoso, imprevedibile ricchezza gestuale, scioltezza di movimenti, raffinata turbolenza.
Il travestimento, e quindi per antonomasia il carnevale, non rappresenta solo un avvenimento divertente, un’evasione dalla banalità del quotidiano, ma mette anche in scena un “mondo alla rovescia”, anarchico, nel quale i rapporti politici e sociali reali risultano ribaltati e ne viene messa a nudo l’aspetto ridicolo e assurdo.
Giulianelli tende a fondere la giullaressa e la maschera fino a renderle un’unità organica; i due elementi risulteranno, pertanto, naturalmente legati: le maschere dai tratti umani divengono volti dall’aspetto di maschere.
Ciò consente a Giulianelli di dar vita a una galleria di personaggi dalle fisionomie più bizzarre: volti atteggiati nelle espressioni più diverse, con le iridi nere e le bocche dipinte con colori sgargianti, fissano lo spettatore, accanto a maschere-burattini-marionette con l’espressione beffarda e lo sguardo malinconico.
In Italia fin dai tempi più antichi il termine “giullare” è stato usato come una specie di contenitore per indicare numerose figure di intrattenitori. Li abbiamo conosciuti con il nome di istrioni, mimi, ciarlatani, saltimbanchi, imbonitori, cantastorie, domatori e ammaestratori d’animali, acrobati, mangiatori di fuoco, giocolieri, burattinai, prestigiatori, lottatori, guitti, danzatori. Un personaggio poliedrico che doveva la sua sopravvivenza all’arte della comunicazione e alla capacità di ottenere una retribuzione per il suo lavoro.
Ultimo esponente di questa categoria il premio Nobel per la letteratura Dario Fo.
Sotto gli abiti colorati, i campanelli e le piume che guarnivano il cappello di buffoni, giullari, nani e cantastorie si celava l’opera di persone che hanno reso un grande servizio alla storia culturale dell’Occidente europeo. Per lunghi secoli, infatti, la pratica teatrale era completamente scomparsa dal panorama culturale.
Considerati alla stregua di giocattoli viventi, di meraviglie della natura degne di una Wunderkammer, ma anche accorti consiglieri dotati di speciali licenze rispetto all’etichetta della corte, questi buffoni, nani, giocolieri vengono infatti ricordati per imprese (e talvolta misfatti) che li inseriscono come persone reali nella vita di corte; mi piace ricordare Yorick fra i tanti. La posizione dei buffoni, a metà strada tra il divertimento e la coscienza parlante del signore, li eleva a protagonisti di un’arte giocosa e bizzarra, che permette anche all’artista felicissime libertà espressive: e valgano da esempio i ritratti del nano Morgante di Bronzino e Valerio Cioli, i caramogi nelle Stagioni di Faustino Bocchi, il Meo Matto di Suttermans.
Forse è sulla base di queste considerazioni che Claudio Giulianelli ha realizzato il suo autoritratto, inserendo, come sempre, dei simboli. il Cristo dell’Eremita, 2017, olio e acrilico su tela 80 x 60Naturalmente Giulianelli si rappresenta come un giullare, con il cappello di panno comune dei giullari medioevali chiamato “cappello dello sciocco”, mentre guarda lo spettatore, come a volergli spiegare il quadro su cui sta lavorando: la tela sul cavalletto mostra una crocifissione (un richiamo a Bosch?), e sotto la croce la sola figura di un eremita (sé stesso, oppure la Vecchia Signora?) vista di spalle con indosso un lungo saio scuro, come Diogene porta una lanterna, segno che cerca l’Uomo. In basso a destra si intravede la sagoma di un burattino, un Pulcinella, il cui significato vedremo più avanti.
Le giullaresse dei quadri di Giulianelli si trastullano con burattini e marionette, suonano strumenti a fiato, giocano con maschere e bolle, financo parlano con un pappagallo …
Perché le giullaresse giocano con questi oggetti? Nella loro rappresentazione si nasconde forse tutto il gioco dei significati e delle significanze: il gioco di Giulianelli del dire attraverso l’utilizzo dei simboli, in silenzio.
Marionette e burattini sono diversi: origini nobili e religiose per la marionetta, umili e popolari per il burattino. Mentre la prima imita l’uomo, simulandone i gesti e addirittura lo supera in ciò che l’attore per sua natura non può compiere, il secondo rappresenta una sorta di caricatura della personalità umana e trova il suo ruolo - comico o tragico – nella propria irruenza fisica e verbale.
Sono sempre le giullaresse, cioè le donne, a muovere nelle opere di Giulianelli entrambi i generi del teatro, però diverso è il rapporto che intercorre con fra animatrice e animato: mentre la marionetta è manovrata a distanza, grazie all’ausilio di un congegno meccanico composto da una crociera e dei fili, il burattino è a contatto diretto con l’animatrice, questo trasmette una fisicità immediata. Il movimento della prima sarà quindi aereo e lieve, costantemente teso alla ricerca della perfezione, mentre il secondo, più nervoso ed impulsivo, rispecchierà direttamente la sensibilità dell’animatrice.
Quindi fra la giullaressa marionettista e la burattinaia c’è dunque una sostanziale differenza, un diverso modo di vedere: la marionettista ha creduto l’uomo perfetto e ne ha fatto un artista a sua somiglianza; la burattinaia ha avuto la persuasione dell’imperfezione umana, ed eccoti venir fuori il burattino, informe, grottesco e senza gambe: forse...per dargli così, possibilmente, più testa.
Più complesso è il rapporto che la giullaressa instaura con la maschera, essendo essa utilizzata per le guarigioni, per preservare le usanze sociali e conservare l’autorità collettiva, o per sfuggire ad essa. Le maschere appartengono alle arti mitiche del teatro e della narrazione.
La maschera è usata per esprimere le grandi emozioni archetipe -amore, paura, rabbia, delusione, gioia- in forma impersonale.
Collocandosi fra il Sé e il mondo, la maschera ha una duplice natura: guarda sia dentro che fuori. Una maschera si può camuffare, coprire, nascondere, La dama del Lago, 2016, olio e acrilico olio su tela 70 x 50mentire, catturare, liberare, rivelare, proiettare, proteggere, ripudiare, richiamare alla mente, ingannare, dissociare, incarnare e trasformare. Le maschere più significative del teatro Nō riescono a “cambiare espressione” in base alla luce, catturando sia la natura “essenziale” sia la natura “mutevole” della vita emozionale e psicologica.
Se la maschera è il volto di un’immagine archetipa, allora identificarsi con essa equivale a possederla. Per contro non avere maschere può portare ad essere eccessivamente vulnerabile.
Ancora le giullaresse giocano con le bolle, e cos’è una bolla, se non un oggetto trasparente pieno di gas, che sulla sua superficie riflette i colori dell’arcobaleno, sia essa di vetro o di sapone. La bolla è bella e leggera, se di sapone un soffio di vento la trasporta ovunque, ma è soprattutto fragile e rapidamente scompare. Le bolle nelle opere di Giulianelli paiono rappresentare i sogni che volano, la sua rotondità globulare ispira unitarietà, interezza, completezza e perfezione spirituale. Ma la bolla ha anche un lato oscuro: la bolla che scoppia suggerisce elusività e illusione, denota inaffidabilità e instabilità, non a caso ciò che non convince viene definito come “una bolla di sapone”.
Infine non è possibile non ricordare che l’iniziatore di Claudio Giulianelli, Hieronymus Bosch, nel suo trittico Il giardino delle delizie utilizzi molte bolle, e inserisce gli amanti nella “bolla dell’amore”.
Altro complemento delle opere di Giulianelli è il flauto, che le giullaresse suonano o maneggiano.
Il flauto è fatto di legno, o di canna, di vento e di respiro. Presente in tutte le culture del mondo, è un richiamo usato da Krisna e uno strumento di Dioniso e di Pan. Ha suono che richiama la voce femminile: beffardo, giocoso, seducente, armonico. La voce femminile, come il flauto del famoso pifferaio di Hamelin incanta e porta via, ammaliando come fanno le ulissidine sirene.
Spesso cortigiane, ma anche maghi e trikster, sono raffigurate con il flauto. Nelle mani di una pastorella un flauto evoca il contenimento delle passioni, dominazione degli impulsi, controllo del caos. Infine il flauto evoca il silenzio, richiama alla mente un’opera olio e gesso su carta di Odilon Redon dove la donna si chiude la bocca con due dita, simulando un flauto. La donna di Redon, come quella di Giulianelli in I segreti di Amelia (2015) richiama un silenzio assoluto, dove è possibile sentire la voce di un Altro totale.
Molti misteri sono rivelati e trasmessi solo attraverso il silenzio.
In mostra l’unico soggetto maschile presente, oltre all’autoritratto, è di Zio Astolfo, che ci mostra il suo segreto: vestito da Pulcinella suona un mandolino, certo una serenata. Immediato il richiamo con la chitarrina di Renzo Arbore, ma anche con La lezione di Chitarra di Balthus che si rifa alla novella con lo stesso titolo di Anne Marie Villefranche: l’erotismo è solo un fatto di testa, e non di vista.
Un mondo quindi, quello di Claudio Giulianelli, apparentemente semplice e giocoso, ma che nasconde in sé sistemi inesplorati.
È evidente che Claudio Giovanelli è un artista, e non solo per abilità tecnica, cos’è un artista se non il trasformatore-trasformista, clown-vecchio trickster, che gioca con materie e oggetti inerti: colui che con il suo gesto sensibile e nonsense, ribelle, intrepido, incosciente cerca, anche disperatamente, di verificare quell’inerzia dell’inerte, di accennare continuamente, instancabilmente alla fosforescente pulsione della libertà, alla “joie de vivre”, all’anima, al dispiegarsi della stessa esistenza?