Intensità di gesti quasi sciamanici e riscritture di echi e allusioni e sussurri convivono nell’opera di Vanni Cantà creando un gioco di rinvii che sembra evocare forme lontane o paesaggi essenziali e in cui l’orizzonte eccentrico diventa il sinonimo di una drammatica esperienza del limite. Sileno Salvagnini ha messo in luce come il fare artistico di Cantà nasca da una profonda conoscenza e da un ripensamento continuo della storia dell’arte: partito dal pensiero visivo e dal minimalismo, l’artista è approdato a una sintesi pittorica in cui si riconoscono “tracce iconiche che […] ricordano Licini piuttosto che Sironi, Giuseppe Chiari invece che Donald Judd”, ma in cui il prodotto finale è riconducibile a una sintesi peculiare e preziosa. Antico e moderno s’incontrano nel fare pittorico di Cantà o, per meglio dire, si scontrano lasciando trasparire quelle che Paolo Serafini ha definito delle vere e proprie “fratture all’interno della tradizione”, in cui è possibile riconoscere la traccia “della instabilità delle basi e delle certezze quotidiane”.