Ho avuto la fortuna di assistere, all’Accademia di Belle Arti di Roma, ad alcune sedute di Disegno dal vero con modella in posa, guidate da Pier Luigi Berto, professore nell’Istituzione romana, e mio collega. In una di queste giornate, Berto aveva montato una serie di filmati di artisti, con l’intenzione di mostrare agli allievi COME un maestro percepisca il farsi del disegno, il suo scopo, la sua particolare poetica. Scorrevano davanti ai nostri occhi il celebre film di Clouzot, con il miracoloso, fluido segno di Picasso che en vitesse ricrea il mondo, il volto segnato di Balthus, e il suo racconto dell’addentrarsi giorno per giorno nella pittura, il lungo prepararsi di Lopez Garcia, che costruisce una struttura per mettersi in condizioni di sostare per giorni, per settimane dinnanzi a ciò che vuole catturare attraverso il disegno (un albero, la veduta di una strada di Madrid), tornando a più riprese sul suo soggetto in identiche condizioni di luce. Mi colpivano, anche ,nel video mostrato agli allievi, gli esperimenti di laboratorio di William Kentridge, convinto che lo studio debba avere un posto centrale nel metodo di approccio alla realtà, e di come l’artista sia affamato del pensare e fare scoperte attraverso la continuità del lavoro e della ricerca affidata al segno grafico: in Kentridge il disegno a carboncino.

Mi diventava più chiaro, allora, attraverso l’analisi del didatta, anche il procedere di Berto, il suo addentrarsi nella selva del segno e la sua poetica d’artista. Non a caso Pier Luigi ammira John Ruskin: colui che vuole insegnare ai suoi allievi a vedere giusto, perché il saper-vedere è una capacità di giudizio ancora più importante del saper-disegnare. L’innocenza dell’occhio da lui teorizzata, è una condizione per poter vedere con occhio da pittore le cose che ci circondano e i paesaggi che abitualmente ammiriamo: potenzialità dello sguardo molto sofisticata, nient’affatto naturale e spontanea, che giunge come risultato finale di un lungo processo d’apprendimento, in cui l’occhio viene educato a isolare ogni singolo elemento compreso nella visione, per osservarne le caratteristiche formali precipue, soltanto sue, ed elevarle poi, nel pieno della sua autonomia formale, a forma pura, colore puro, segno puro. Berto infatti sa bene che la verginità dell’occhio proposta dagli Impressionisti (la visione primitiva, fisiologica, naturale, spoglia di tutte le conoscenze della storia della pittura) è un’illusione: quando si pone al lavoro l’occhio è sempre antico, ossessionato dal proprio passato e dalle proprie suggestioni. Esso seleziona, respinge, organizza, associa, discrimina, classifica, analizza, costruisce. Come ricordato da Gombrich, esso non tanto rispecchia, quanto raccoglie e rielabora.

Egli sa pure che, cessate le sirene delle Avanguardie, e gli inqualificabili epigoni del “nuovo ad ogni costo” che ancora appestano, con colpi di coda, il mondo dell’Arte, il “futuro ha un cuore antico”, come imparò da allievo nello studio di Carlo Levi, suo maestro a Villa Strohl-Fern.

Ecco allora - adesso che sono state finalmente smascherate le pretese iconoclaste del “secolo breve”, e la presunzione di gettare a mare tutto il passato come un insopportabile fardello - dispiegarsi la sua proposta di tecniche del Disegno direttamente ricollegata ai grandi maestri: la punta d’argento che corre sulla carta, preparata col bianco d’osso, pigmenti e colle vegetali; l’uso di inchiostri naturali, come l’inchiostro di galla, estratto da bacche; i materiali più consoni al particolare tipo di espressività che il segno ricerca (punte metalliche, contè, sanguigna , pietra nera, grafite, fusaggine).

Berto espone in questa mostra di Padova diversi gruppi di disegni, frutto del suo ultimo lavoro, e rappresentativi del ventaglio di interessi d’artista che egli affida alla carta. Dagli studi dal nudo (Sonia 1-4; La main de Sonia) agli studi dall’Antico (Musei Capitolini 1-3,Istanbul,Sarcofago Romano) in cui è chiaro l’uso del segno, pienamente dominato, costruttore della forma; ai ritratti (Mon père, Ritratti parigini, Ritrattino francese, Volto con occhi chiusi), con le fitte trame di segni diagonali, incrociati, che includono, nella loro costruzione, la figura e la avvolgono nel bozzolo della sua disposizione d’animo, soffusa, ma ancor più potente, nella leggerezza del mezzo disegnativo.

Bellissimo, superbo è l’Hommage à Ingres, inno alla potenza dell’Arte. Da un monumentale tronco d’albero, disegnato con rara maestria occhieggia il ritratto di una delle celebri dames dell’allievo di David: metafora di come Arte e Natura ci stiano di fronte in sé compiute, a se stesse affaccendate nella armonia riuscita che le accomuna. E, insieme al bellissimo sambuco di Latera, l’”albero di Ingres” di Pier Luigi Berto mi fa riandare con la mente alla metamorfosi, e al disegno come unico mezzo di cattura delle strutture prodigiose che la Natura elabora nelle sue trasformazioni. Ecco, credo stia proprio qui l’essenza, l’ idea di ciò che significhi per lui disegnare . Come per Goethe nell’indagine sul fenomeno originario delle forme vegetali (la foglia), per l’artista la Forma si muove, diviene, trascorre; il desiderio di conoscere, qualcosa che spinge a cercare, lo guida alla scoperta, alimenta lo stupore e la sorpresa di addentrarsi nel cuore del mistero della Natura. Il disegno è lo strumento di questa scoperta, trasforma il vedere in un pensare: non un mero duplicatore della realtà, ma ciò che rende possibile vedere con gli occhi un’idea.

Un disegno di Pier Luigi ci soccorre, a rendere plausibile questa intuizione. Si intitola “Sguardo”. Raffigura un volto, in alto a sinistra, lo sguardo intento e assente al tempo stesso; più in basso, un alberello dai rami spogli, ma con un rametto su cui si accampano (già? ancora?) poche foglie. In alto a destra, vergata a penna, una iscrizione (traduco dal francese): “…e delle mani troppo fedeli, per duplicare un mondo da cui io sono assente”.

La neutralità dello sguardo, data dall’”assenza dal mondo” che l’artista vive come distacco è anche l’unica via che possa garantire una possibilità di perfezione nella Forma, l’approdo all’Idea. Ma la scelta del Disegno come mezzo di elezione non basterebbe, se ad essa non si accompagnasse il grande talento di Berto, affidato alle sue “mani fedeli”, impegnate ogni volta in una cosmogonia, attuata attraverso carte, matite, carboncini, biacche.