Cosa ci é rimasto del Mantegna degli Eremitani, del capolavoro giovanile cioé di questo genio del Rinascimento italiano, che é la maggior gloria della nostra città? Le bombe che in pochi se­condi hanno semidistrutto la Chiesa degli Eremitani, ci hanno privati della maggior parte dell'opera sua. Ci limi­teremo quindi a parlare di quanto ci é rimasto ed ha ripreso il posto naturale nella chiesa ricostruita, perché non ser­virebbe al nostro scopo (che é quello di avvicinare i padovani alle opere d'arte della loro città) parlare di ciò che non esiste più, se non in pallide riproduzio­ni fotografiche (del resto più utili degli incredibili quanto costosissimi affre­schi restaurati).

Parleremo dunque dei tre affreschi rimastici, compiuti dal Mantegna fra il 1448 e il 1457.

Dell'Assunta, che degli affreschi ri­mastici presenta sicuramente una mi­nore quantità di valori e interessi figu­rativi, accenneremo a quella che rimane la nota più suggestiva di questa pit­tura murale del giovane Mantegna: la rivoluzionaria invenzione del gruppo di apostoli, che sono autentici eroi ter­reni, prodigiosamente agitati e protesi con gli sguardi come con tutta la perso­na verso il miracolo di Maria che sale al cielo contornata dagli angeli: angio­letti che nulla hanno però più in comu­ne con i benvestiti angioletti dell'arte del più religioso quattordicesimo secolo. Ed é certamente per accentuare la sua impostazione tutta terrena, o uma­nistica, che il genio di Mantegna ha co­me raccolta l'Assunzione al cielo di Maria entro una perfetta apertura a pi­lastri, chiusa in alto con il classico arco a cerchio pieno perfetto, ellenisticamente ravvivato da eleganti rilievi co­me i due pilastri dell'apertura. Infinite innovazioni, innumerevoli invenzioni e rivoluzioni toccherà l'arte della pittu­ra, in tutte le scuole italiane, e tuttavia questa Assunta del Mantegna degli Eremitani rimarrà per tutti il modello entro cui dovranno muoversi per rag­giungere un risultato degno di volta in volta del loro tempo.

Il secondo affresco rimastoci é quello detto di S. Cristoforo Saettato. Questo affresco del Mantegna, come quello attiguo del Santo trascinato, é certamente l'ultima opera eseguita dall'artista agli Eremitani, e a vari anni di distanza dalle prime storie affrescate nella parete di fronte (del resto é ben documentata la reiterata presenza agli Eremitani del Mantegna a distanza di vari anni). In queste due figurazioni ri­masteci, non soltanto le persone sono più vere, più naturali, ma queste opere conclusive del Mantegna si presentano con un accento particolarmente mo­derno.

C'é anzitutto l'invenzione tutta paesaggistica del pergolato, che permette al Mantegna di dare un tono infinitamente sciolto e vero al paesaggio, anche se sostanziato di case e campanili. Quanto poi ai motivi monocromi e scultorei che caratterizzano classicamente codeste case così nuove e rina­scimentali, é da dire come sia stata una delle pagine più preziose del Mante­gna, questa sua ambizione per le finte figurazioni in scultura, che, come per il suo maestro Donatello, gli prestavano l'estro per attingere fino all'impossibi­le alla sorgente dei suoi più veri mae­stri, gli artisti della prima classicità.

Tutto in queste pitture ci appare, per il suo tempo, opera d'un geniale innovatore, tutto é infinitamente più ric­co, sciolto naturale e così particolar­mente per la materia pittorica, divenu­ta più chiara, luminosa, cristallina nella ricchissima gamma che va dal grigio argento (questo colore così padovano) al più discreto quanto smagliante rosa conchiglia (ed é per giustificare quasi queste concessioni al colore che il Mantegna ricorre agli intonaci cascanti delle case).

L'uomo saettato, il presunto ritrat­to della Squarcione e il proprio autoritratto, come i tre gentiluomini visti di profilo sulla destra dell'affresco, sono particolari di una tale felicità e altezza stilistica da far pensare per il Mante­gna agli ormai prossimi trionfi di Man­tova.

Così dicasi per le figure principali del trascinamento del santo (questa mostruosa acrobazia prospettica del genio umanistico del Mantegna), e so­prattutto, del gruppo che chiude l'af­fresco all'estrema destra, e del guerrie­ro che con la destra si appoggia alla lunga lancia girando lo sguardo in ter­ra e fuori della scena, e del giovane che sostiene la gamba massiccia e veramen­te pesante del santo. Quale esempio abbiamo, prima di questo stupendo ri­tratto di giovane del Mantegna, che ci possa riportare come di colpo e di incanto alle "storie" di Mantova?

Il palazzo arricchito dal pergolato, della storia precedente, si affaccia per buona parte su questa ultima storia, quasi da farne tutta una, almeno nella cornice, per continuare addirittura, grazie al ponte su triplice arditissimo arco, fino a fondersi col palazzo che sulla destra chiude la storia. Ma il par­ticolare più interessante é forse la para­ta di gente la più varia con cui il Man­tegna ha animato l'alto ponte a tre ar­chi che congiunge i due palazzi. Questo motivo così veneto, così terreno, cosa realistico che il Mantegna per primo con chiara coscienza immette nell'arte pittorica, non sarà più dimenticato dai maestri della pittura veneta, e per tutti basti citare i due che sono anche i più lontani dello spirito plastico e fermo del genio del Mantegna: Paolo Veronese e G.B. Tiepolo.

Sarà altro il discorso formale che il Veronese un secolo dopo e più tardi il Tiepolo porteranno nelle fortune altis­sime della nostra pittura, e tuttavia é al Mantegna degli Eremitani, di Padova, che spetta anche questo grande merito, di avere cioè dato cittadinanza estetica anche ai fatti e particolari apparentemente meno importanti della vita del suo tempo.