Si può ammirare una bella mostra di Giampietro Cavedon. Si tratta di venticinque grandi tele, tutte recenti, in cui è finalmente possibile giudicare con cognizione di causa gli ultimi esiti del pittore che dal 1991 è il presidente del nostro gruppo artisti.
Prima annotazione. Cavedon è un pittore che ha bisogno di spazi liberi e larghi. Non perché poi li assiepi di figure o di oggetti, ché anzi questi ultimi sono collocati con estrema sobrietà e fatti oltremodo respirare, a testimonianza del fatto che l’autore possiede una capacità di ambientazione molto atmosferica, realizzata cioè con una sorta di pittura indistinta e nebulosa, che è un altro degli elementi notabili della sua poetica.
Essa per il passato ha girato a lungo intorno al concetto di incomunicabilità, presentando spesso figure le quali, pur collocate vicine, non diàlogano, anzi nemmeno si accorgono di non essere sole, quasi che la solitudine sia il Leitmotiv dell’artista maranese. Era tutto sommato una pittura un po’ scontata, più di tipo illustrativo che davvero intimamente interpretata. Meglio ora, con la figura posta nell’isolamento della propria pensosità, intravista nella foschia, sorpresa nell’intimità di gesti tutti femminei.
05Né meno interessanti le nature morte, fatte di oggetti comuni e pochissimo pittorici, per cui la qualità sta tutta in quella specie di groviglio che gli oggetti formano con le proprie ombre, dilatate entro uno sfondo dalle modeste variazioni cromatiche, che un rosso, un viola acceso non fanno che confermare.
Questo per i temi, i quali, se letti come simboli, rimandano ad una visione della vita sostanzialmente non lieta, ad una liricità marcatamente crepuscolare. E ciò anche quando si tratti di paesaggi, rari e per lo più collinari, con le case lontane nitidamente incise in un’atmosfera tristemente novembrina e contemplativa, inquadrate entro il vano di una finestra e dunque, per dir così, ad un tempo evidenziate e allontanate. Tale pittura insomma, ad onta della estesa spazialità, vive più del particolare, che è sempre dimesso, feriale, con qualche preciso riferimento ad un mondo che in certo qual modo sa di abbandono. Un mondo dietro casa e un po’ stazzonato, appunto come i giornali posti spesso nel quadro o per nasconderti il volto e liberarti dall’impegno di un impossibile dialogo, o, stropicciati sul tavolo, lì a far da simbolo dell’effimero e del negletto.
Quanto al modo di dipingere di Cavedon, più volte mi son chiesto che cosa, ora o nel passato, lo abbia tenuto al di qua dell’informale, tanto la sommarietà bene si coniuga con la sicurezza del gesto. Egli sarebbe stato un ottimo gestuale, se solo fosse nato una decina d’anni prima, oppure se non amasse tanto la realtà naturale da non saperla ripudiare del tutto (come fa un pittore a non cimentarsi, non fosse altro, col profilo di un corpo femminile?). E fa bene, perché le maggiori suggestioni della sua pittura derivano appunto da questa spigliatezza ad un tempo decisa e incompiuta, da una sicurezza nel gesto che poi sembra sfarinarsi e dissolversi.
In breve, una bella pittura, talvolta ancora un po’ facile, cioè non trattenuta, come può capitare a chi sa di essere bravo. Però un mondo poetico intenso, fatto di allusioni e di ritegno, tra timidezza ed elegia. Non senza qualche furbizia, qualche riecheggiamento di troppo.
Qualche volta l’artista dà l’impressione di non voler curarsi troppo dei propri soggetti, quasi che ogni tema sia buono: se il pennello è di setola salda e corriva. Invece non è così. Ma allora io rilancio la sfida: e se ora Cavedon s’impegnasse in un’attività ritrattistica, cercando di sondare dentro la mutevolezza di un volto, o la noncuranza di un gesto e di una positura il carattere di cui spesso siamo inconsapevoli portatori? Ci pensi.