Così Paolo Cervino ha titolato gli ultimi suoi lavori, tutti del 2013.
CRAC è parola onomatopeica, che imita il rumore di cosa che scricchiola o si spezza. É anche indice di tracollo finanziario, di crollo generalizzato delle quotazioni di borsa.
CRAC(K) è uno stupefacente altamente pericoloso, con elevata dipendenza e assuefazione, ricavato dalla cocaina.
CRAC(K) in informatica è la forzatura illegale di un software, o di un file criptato.
In ogni caso è parola che indica qualche cosa di pericoloso, di proibito, praticamente una fine.
Viene spontaneo chiedersi come mai il (momentaneo) punto di arrivo di Cervino punti alla rottura, al disfacimento.
È proprio così?
È  vero che quasi tutte le opere, che sono quasi delle mappe, hanno uno sfondo nero, molto cupo, ma sono piene di vivaci colori, e di movimento perché in tutte è presente un senso di rotazione, a volte orario altre antiorario: questa circolarità richiama alla mente antiche mappe come ad esempio la Mappa di Roma miniata presente nel codice Trés  Heures du Duc De Berry del 1416 o la raffigurazione della città di Rodi presente nell’Atlante Nautico di Giorgio Calepodio (1537) conservato presso la Biblioteca Marciana Nazionale di Venezia.
Se c’è movimento c’è vita, infatti nella n.1 al centro è chiaramente visibile un volto, anzi una maschera: quella greca della Tragedia, con i palazzi che collassano.
Cervino, forse presenti gli eco-mostri della sua terra salentina, e non solo, individua nella politica, e per estensione nei politici, il principale responsabile del crac, e nel n. 4 mostra come La politica inghiotte la città: i palazzi formano i denti e l’ugola di una gola spalancata e vorace pronta a inghiottire, se già non lo ha fatto, le città.
Lo sfondo è nero, e il nero da sempre raffigura il nulla, il vuoto; le corone di palazzi evidenziano un insieme che è nero, quindi un insieme vuoto. E questo è un paradosso, come nota Federico Ferrari: “Si tratta, infatti, di un insieme che non ha elementi ed è quindi composto di nulla, ma che, in quanto insieme, è qualcosa. Non solo è nulla che è qualcosa, ma è anche l’insieme partire dal quale sono costruiti tutti gli insiemi finiti. L’insieme vuoto non è, quindi, un insieme come tutti gli altri o tra tutti gli altri, è un insieme unico, aperto e chiuso allo stesso tempo. A rigor di termini non si può usare l’espressione ‘un insieme vuoto’, si può solo dire ‘l’insieme vuoto’”.
Questo vuoto è quello che resta delle città dopo il CRAC, e viene riaffermato da Cervino con il riconoscimento del potere politico l’aspetto negativo della città di oggi, non più polis nel senso greco del termine, ma destinata al CRAC. Un pessimismo di fondo.
Ma nelle opere seguenti, n. 5 e n. 6, si nota un ritorno all’ottimismo: la n. 5 riproduce nei colori e nelle forme le città medievali, nuovo punto di partenza per rifare un futuro migliore; la n. 6 è una scomposizione che è inno alla gioia così come la n. 7, mentre le tonalità di azzurro e la luna con tutta la Via Lattea si specchia nel mare della n. 8 è una visione di romantico amore.
L’ultima immagine nota (al momento) delle City Crac, la n. 9, è anch’essa vivace e policromatica, spinta dal movimento circolare verso il futuro come un razzo nell’universo.
La produzione di Paolo Cervino, come è giusto che sia per un artista a tutto tondo, è più ampia e variegata di quanto possa apparire vedendo solo le opere di questo ultimo ciclo, anche se nel complesso della sua opera appare evidente l’interesse per l’alveare umano, per l’aggregato di edifici che compongono città e villaggi.
Non sempre la visione è però catastrofica, da scricchiolio e rottura: vedendo le immagini dei Villaggio di pescatori l’insieme è fiabesco, particolarmente per le due prime opere dove case colorate si riflettono in un mare luminoso; mentre nelle ultime due tele il villaggio non è più tale, essendo stato assorbito dalla città che si è espansa, conglobandolo e trasformando il villaggio da fiaba in periferia.
Anche Matera, opera del 2013, ci allontana dal crac delle città per portarci in una dimensione fuori dal tempo, dove sono visibili le scalette dei Sassi, e la case-caverne sono trasformate in un paesaggio da Presepe. Il tutto avvolto nel buio più totale della notte.
E dovunque si nota l’assenza dell’uomo, le case e le strade sono vuote, restano solo i manufatti, come dopo l’esplosione di una bomba a neutroni.
Unica presenza umana, se così si può dire, e nell’Autoritratto presente a pagina 22, ma anche qui la figura si riconosce, si indovina quasi, in una tavolozza di colori che più che mimetizzare tendono a dissolvere il volto dell’autore.