Il percorso artistico di Renata Solimini è relativamente recente, ed inizia nel 1993 dopo un periodo trascorso in Cina nel tentativo di impadronirsi di una tecnica, la calligrafia cinese, che coinvolge necessariamente la necessità di appropriarsi di una mentalità lontana e difforme dalla nostra cultura, dove solo mediante applicazione faticosa, non solo mentale ma anche fisica, e costante è possibile cercare di avvicinarsi alla perfezione dei maestri.
In Cina la calligrafia è considerata la base di tutte le arti, in particolar modo di quelle figurative. Creata nelle forme attuali alla fine della dinastia Han (II secolo d.C.), la calligrafia è stata per lunghi secoli appannaggio di intellettuali, poeti, filosofi ed uomini di Stato, per poi diffondersi attraverso più vasti strati della popolazione cinese.
L’utilizzo dei pennelli imbevuti nell’inchiostro di china richiede la giusta concentrazione, la corretta postura, il controllo della respirazione e, in ultima analisi, una disciplina meditativa che prelude ad una vera e propria espressione artistica: una danza con mano e pennello.
Alla ricerca della purezza, Solimini era obbligata d’astrarre le forme naturali che mascheravano elementi plastici, eliminare le forme “natura” e rimpiazzarle con le forme “segno”. Segni concreti e non astratti, perché nulla è più concreto, più reale di una linea, d’un colore, d’una superficie
Forse proprio a causa della durezza della scuola cinese Solimini, intenta alla ricerca della perfezione del movimento che porta al tracciamento del segno con pennello intriso nella china sul foglio sotto la guida del maestro calligrafo Yang Haocheng, forse combattuta e già tentata dall’esplorare altre modalità artistiche più attuali rispetto alla pittura tradizionale Gongbi, peraltro attuata in maniera pregevole sotto la guida del maestro Zhou Yufeng, avvertì sicuramente un forte impulso a cercare qualcosa di “altro”, trovandosi perciò indotta ad un vasto sforzo di affrancarsi da tutti gli orientamenti, uno sforzo cioè di superare, di andare oltre …
Credo che proprio questo ventaglio di necessità espressiva abbia permesso l’accelerazione evolutiva del suo stile così particolare. E, forse, proprio grazie a un coacervo di “appropriazioni” che arriva a precedere il pensiero pensato, che Solimini ha dato e dà vita, proprio grazie alla schietta testimonianza delle influenze accolte e alla compiutezza di una sua “maniera”. La sapienza della mano-maestra, sempre in attività, sembra sapere, e saper passare tutto questo competente agire con sempre maggiore autorità cognitiva, alla gestualità pittorica, all’uso svariato dei supporti sui quali articolare quel personale alfabeto lentamente aggregandosi a comporre una propria lingua.
Nel considerare, a distanza, il percorso artistico di Renata Solimini, e non tanto per storicizzarlo fissandolo su un preciso momento culturale (la crisi dell’immagine come mimèsi, il tentativo del recupero dell’immagine tramite una nuova definizione di “oggetto” e verso una articolazione di tipo narrativo) quanto per indagarne le componenti in base a una serie di raccordi intenzionali interni, molto grossolanamente ma utilmente si potrebbe cominciare con l’individuarne tre fasi.
Quella iniziale della dominante informale, indizio di una liberazione stilistica, certamente una risposta alla scuola cinese di calligrafia.
Quella centrale, avviata ad una riappropriazione dell’immagine esterna fino al tentativo di restituire l’immagine (immagine-simbolo, sua riduzione a emblema con sottintesi sociologici, oppure una sua “astrazione” con affinità di feticcio in vero e proprio oggetto tangibile).
Infine la terza fase, iniziata da poco tempo, e che si potrebbe definire una somma assai articolata delle precedenti. Nella quale l’oggetto torna ad essere immagine mobile, si animalizza o si umanizza, si avvia al “racconto”.
In questa terza, e per il momento ultima fase, si inserisce il tema, argutamente affrontato da Giorgio Di Genova (G. Di Genova: La Gaia Ittiologia di Renata Solimini. Roma, Galleria Vittoria, settembre-ottobre 2015; pp. 3-4) dei Pesci.
Effetto dell’evoluzione, primi tra i vertebrati, i pesci fecero la loro comparsa sulla terra mezzo miliardo di anni fa. Si sono evoluti in rettili e anfibi progenitori delle specie a sangue caldo. Probabilmente anche per Solimini siamo solo ad un momento di passaggio verso altri lidi.
Perché a ben badare, l’operazione estetica di Renata Solimini trova fondamento e motivazione in una inquisizione della sfera dell’organico al fine di impostare un rinnovato rapporto fra coscienza e natura.
I pesci sono la dodicesima e ultima costellazione dello zodiaco, rappresentano la fine del cammino annuale del Sole e il punto di congiunzione tra il riassorbimento del molteplice nell’unità originaria e l’inizio di ogni successiva manifestazione. Sono pertanto considerati espressione del dissolvimento e della rinascita e associati ad ogni forma di rivelazione messianica, e forse non a caso, forse una nemesi, Symmetric fish del 2015 richiama Il concetto di Yin e Yang che sta alla base della filosofia e del pensiero cinese.
Interessante e molto da approfondire la stagione dell’Informale di Solimini, qui rappresentata con alcune opere nella seconda parte iconografica del catalogo, si mostra per quello che è e si affida solo a sé stessa: non cerca altrove il proprio senso e la propria ragion d’essere. Non si nasconde dietro un tema convenzionale e non cerca di stupire proponendo soggetti inediti (come farà in seguito con i Pesci), ma si mette in gioco direttamente. E per far questo punta su due elementi da sempre costitutivi del dipingere: il segno e il colore. Occorre evitare di cadere nella trappola di pensare che si tratti di un’espressione “spontaneistica”.
L’Informale di Solimini è Pittura allo stato puro: Pittura che dipinge sé stessa. Pittura che mette in scena sé stessa e che si mostra, si mette a nudo, mette a nudo i suoi meccanismi, le sue regole compositive, la sua tecnica, la sua sintassi, il suo lessico. La Pittura che riflette su sé stessa.
Occorre insistere sul fatto che non si tratta assolutamente di un’espressione completamente “libera” e senza regole. Al contrario forse: l’assenza di rapporti con una realtà da raffigurare e con la quale relazionarsi, toglie ogni possibile stampella alla pittura, ogni alibi, ogni scorciatoia, e ogni motivo di distrazione. Costringe l’artista ad un maggior rigore, ad una maggiore padronanza tecnica, ad una maggiore maestria compositiva. Non c’è nessun soggetto nel quadro che possa attirare l’attenzione del fruitore e risultargli piacevole in modo da fargli piacere di conseguenza anche il quadro, nulla che possa sedurre i sensi e l’intelletto del fruitore al di là del puro e semplice gioco dei segni e dei colori. Ricordiamo che Solimini giunge a questo dopo la severa scuola di calligrafia cinese, come una liberazione, passo necessario anche per i suoi successivi sviluppi tecnici e di ricerca di soggetti personali.
È evidente che in tale contesto la costruzione della forma, di una forma predeterminata dal pensiero dell’artista, diviene una contraddizione. Per essere se stessa, e affinché l’artista abbia con essa un rapporto di assoluta autenticità, la materia non può essere strutturata secondo schemi razionali, che ne farebbero ancora una volta qualcosa d’altro, ma rimane con la forma che le è propria in quanto materia, ovvero rimanere informe. Le due esistenze, dell’artista e della materia, tendono a incontrarsi o a scontrarsi in un rapporto che mantiene intatte e sempre presenti le due identità, facendole confluire nell’opera con le loro originarie peculiarità. È questo che dà alle opere informali, gestuali, segniche e materiche l’aspetto ibrido e conturbante di materia organica, di reale e umano nello stesso tempo, di materia viva e parlante, appendice del corpo e dell’anima dell’autore, e insieme dell’intero universo.
CONCLUSIONI
Malgrado alcune zone di silenzio non è poi tanto difficile rintracciare una continuità interna, una linea che passa (magari a corrente alternata) anche attraverso le varianti più vistose e apparentemente discordanti.
Una coerenza da non confondere né con la ripetizione dei moduli stilistici né con il cedimento, per eventuale stanchezza o furbizia, a qualche atteggiamento di moda. E si potrebbe dire che questa riconoscibilità spesso immediata del suo linguaggio resta ancorata ai suoi elementi espressivi iniziali in ogni momento del suo lavoro: alla corsività di un segno (disegno) chiarissimo, netto, nel quale è presente la strenua, raffinata, sensibile esperienza grafica di chi si è misurato con pazienza pari all’abilità come le tecniche della calligrafia.
Nondimeno, la scrittura/pittura di Solimini ci sfugge di mano anche se, dopo un lungo scrutinio, vediamo che alcune chiavi si vanno decodificando, un po’ alla volta, davanti ai nostri occhi. Oscuri ed erratici pittogrammi sembrano tuttora emergere da un altro spazio e da un altro tempo, mantenendo una propria ben definita essenza in cui è racchiusa la nostalgia di un mondo primitivo. Colori vivaci compongono il fondo di spazi universale, nel quale convergono anche grafismi cancellati, sfumati e vaporizzati dal meticoloso grattage effettuato dall’artista.
È possibile che il tratto centrale del lavoro di Renata Solimini sia da vedere in quella che possiamo definire la soluzione-ponte del conciliare e portare a sintesi gli elementi sensuosi e quelli ideali.
Molte   opere  di  questo  periodo  attestano  il  suo  sforzo  di  definire  un  linguaggio  pittori co unico,  irripetibile  e  solido,  attraverso  l’impiego  di  un  alfabeto  primitivo  coesistente  con  un  supporto  non  tradizionale.
Prendono corpo e dimensioni appropriate, così, esiti di un’arte nata da esigenze legate ad un linguaggio pieno di connotazioni simboliche e fantastiche, di stravaganti coreografie del pensiero, in cerca non della libertà, ma di libertà.