Giada con figura di spirito e scritta 0,8 4,5 x 6,5Giada con figura di spirito e scritta
 dim. 0,8 4,5 x 6,5
Il termine “giada” è indissolubilmente legato alla civiltà cinese. Da una quarantina di secoli i cinesi hanno conferito a questa splendida pietra un valore inestimabile, e le hanno tributato un vero e proprio culto. Paradossalmente questo minerale non esiste nella Cina antica propriamente detta, ed è sempre stato importato, nella sua quasi totalità, dalla parte sud occidentale del Turkestan, l’attuale Xinjiang.
Precisiamo innanzi tutto ciò che intendiamo per giada. Quella che attualmente viene lavorata dai lapidari d’estremo oriente (braccialetti, gioielli, statuine...) di fatto è serpentina, quella che i cinesi chiamano “yu matto” o falsa giada. Questo moderno surrogato ha un coefficiente di durezza due volte inferiore rispetto a quello della giadeite, e si scalfisce con una lama; inoltre vale dieci volte meno! Del resto, la giadeite stessa, anch’essa definita con il termine di giada, non ha l’aura e il prestigio della nefrìte che è la sola ad avere il diritto di essere definita “zhen yu”, vera giada. Nella Cina antica venne trattata e lavorata solo questa varietà, portata con spese enormi dallo Xinjiang. La giadeite, importata dalla Birmania, ha fatto la sua comparsa in Cina soltanto a partire dagli anni 1730. Fino a questa data, dunque, gli oggetti che vengono definiti di giada sono, più precisamente, di nefrite.
Di struttura fibrosa (a base di silicato di calcio e di magnesio) la nefrite è straordinariamente dura e sonora; l’acciaio non la riga. Allo stato puro - molto pregiato -, è di un bianco latteo, lievemente traslucido, ma impurità e molecole di ferro, di manganese o di cromo, le conferiscono una vastissima gamma di tinte, che varia dal giallo (molto pregiato) al nero, passando per il beige, il malva, il rosa, il rosso rubino e tutti i verdi, dal più pallido al verde scuro e al verde smeraldo che è anch’esso estremamente pregiato.
Tra le tinte biancastre, molto apprezzate, menzioniamo quella detta “grasso di pecora”, a causa del suo aspetto. Queste nefriti dalla lucentezza un po’ oleosa, risultano vellutate al tatto, estremamente morbide e fredde al tempo stesso. Perché, per i cinesi, le giade vanno accarezzate e ascoltate facendole tintinnare - e non solo ammirate. Vengono quindi coinvolti la vista, l’udito e il tatto.
D’aspetto decisamente simile, le giadeiti di Birmania sono comparse tardivamente (inizio del XVIII secolo, come abbiamo detto).
Si distinguono per il loro coefficiente di durezza (lievemente inferiore), il diverso peso specifico, la maggior lucentezza e una migliore uniformità di colore. Di struttura cristallina (a base di silicato di sodio e di alluminio), le giadeiti sono più traslucide e la loro gamma, meno estesa, si limita ad alcuni verdi; il verde brillante viene definito “verde imperiale”. Il verde mela e il verde smeraldo sono spesso utilizzati nell’oreficeria contemporanea.
Da circa 45 secoli, dalla fine del neolitico, il centro di produzione delle nefriti si situava in Asia centrale, nelle regioni di Yarkand e di Farfalla e cane, dim. 5 x 4 x 0,5Farfalla e cane, dim. 5 x 4 x 0,5Kashgar, soprattutto di Khotan, un’oasi che rappresentava una tappa ben nona sul ramo meridionale della Via della Seta, a sud ovest del deserto del Taklaman. Là, alle pendici dei monti Kunlun (Kunlun Shan), nell’alveo di due fiumi quasi paralleli e poi confluenti vengono cercati i ciottoli di giada nera, nel corso del Fiume Karakax, e quelli di giada bianca, nel letto del Fiume Yurungkax, più a est. Ne venivano estratti anche in alcune cave situate nei primi contrafforti dei Monti Kunlun, a sud, ma questi giacimenti sembrano essere stati esauriti e abbandonati intorno all’anno mille. Tutti questi luoghi sono situati a circa 3000 km a ovest dei grandi centri culturali dello Shaanxi. Dal IV secolo a.C., si trovano accenni a un commercio di giada tra la Cina e i barbari Yue-Zhi. Nel 125 a.C., un letterato visita Khotan (l’odierna Hotan) e riferisce che molta giada grezza vi veniva raccolta per essere mandata all’Imperatore (che a quel tempo era il Grande Wudi della dinastia Han). E questi accenni a tributi in giada, mandati dalla regione khotanese, si moltiplicano fino al XVIII secolo, un tributo consegnato in modo discontinuo, perché legato alle vicissitudini politiche. Infine, più tardi (verso i nostri ultimi secoli), sembra che alcune nefriti provenissero dal sud siberiano, dai dintorni del lago Baikal e dai monti del Saian orientale. Si tratta in particolare di una varietà di giada verde scuro.
La lavorazione della giada è una vera sfida e una delle più difficili che esistano, tanto questo materiale risulta duro e ribelle all’utensile (coefficiente di durezza: 6,5). Si immagina che inizialmente i lapidari abbiano proceduto in modo rudimentale, tramite sfregamento e attrito consumando pazientemente la superficie con una pasta abrasiva, una fanghiglia a base di sabbia quarzosa o di polvere di granato (coefficiente 7,5) e servendosi di sostanze grasse come solventi. Per frantumare questa pasta utilizzavano pezzetti di cuoio e, per praticare dei fori, archetti di bambù. Nel corso degli ultimi secoli a.C., vennero utilizzati bulini di bronzo, poi punte di ferro (a partire dagli anni 500-400 a.C.), utensili rotativi, dischi da taglio, trivelle, sgorbie... mossi da un tornio azionato con i piedi. Oggi l’acciaio temperato, il diamante, i corindoni granulari (coefficiente 9) e il carborundum (come lo smeriglio) facilitano il compito, che tuttavia non per questo è meno difficile. Ancora oggi alcuni esemplari decorativi richiedono interi mesi di lavoro. In Cina, negli ultimi secoli, i grandi laboratori furono quelli di Pechino (nella Città Proibita, nel XVIII secolo), di Nanchino, di Suzhou e di Yangzhou.
Quest’estrema difficoltà nella lavorazione della giada, che sconfina nella prodezza e nel virtuosismo, unita alla rarità di questo materiale, spiegano l’aura elogiativa e magica che circonda la giada, in Cina, e quella specie di culto e di venerazione speciale che i suoi abitanti le hanno tributato in ogni tempo. Ai loro occhi è la pietra nobile per eccellenza, regale, simbolo di purezza, considerata come “la cristallizzazione di raggi di luna o di stelle”.
Coppia di cani di fuoco 3,5 x 1,7 x 1,7Coppia di cani di fuoco
dim. 3,5 x 1,7 x 1,7
Alla giada è legato tutto un simbolismo, in particolare per i confuciani che ritrovavano in questa roccia le caratteristiche delle loro cinque virtù morali: bontà o carità (la sua lucentezza e il suo fulgore, caldo e brillante al tempo stesso); saggezza (l’armoniosa purezza della sua sonorità); rettitudine-dirittura o franchezza (la sua traslucidità); coraggio (la giada, dura, si spezza ma non si piega mai); infine equità (ha angoli aspri e acuti, che però non tagliano).

Per i taoisti, lo yu, vero e proprio elisir, era dotato di virtù soprannaturali; l’ingestione di polvere di giada consentiva, secondo loro, di avere accesso all’immortalità dei Savi. Le sue virtù esoteriche, la sua rarità, il suo costo enorme e il suo fascino hanno fatto della giada il materiale ideate per la fabbricazione di oggetti rituali, religiosi e funerari, e di oggetti emblematici, legati all’autorità e al comando. Sembra che nessun oggetto di giada sia mai stato inizialmente concepito per un uso pratico. Così, quando il sovrano venne riverito come la personificazione del Cielo e della Terra, nel corso delle prime dinastie, vari oggetti cerimoniali di giada furono introdotti nel culto complicato che veniva reso all’Imperatore, allo Stato e al Cielo fusi insieme. Del resto, il governo si riservò il monopolio di questa roccia esoterica. I grandi benefattori dello Stato ricevevano, a titolo di ricompensa, oggetti di giada, autentici emblemi del loro rango e delle loro funzioni, nonché della loro autorità; i proclami, per esempio, venivano resi pubblici con l’esposizione di placche di giada, di varie forme, a seconda della loro natura; per esempio richiamavano la forma di un coltello per le mobilitazioni - gli ufficiali addetti al reclutamento e all’addestramento ricevevano come pegno di autorità una scure-pugnale del tipo ge - o la sagoma di una tigre profilata nella giada veniva consegnata a chi custodiva segreti militari.
Ma sembrerebbe che prima di diventare un materiale riservato ai detentori dell’autorità, e che anticipa la futura tavoletta portata sul petto dagli alti funzionari (come il famoso sick degli ufficiali inglesi) la giada inizialmente fosse utilizzata nel rito funebre e per il culto dei morti. Come i bronzi arcaici, forse le giade arcaiche hanno anch’esse avuto due usi, uno quand’era vivo il loro proprietario, con fini rituali, e l’altro alla sua morte, accompagnandolo nella tomba, per la vita nell’al di là. Nell’antichità, i cinesi erano convinti che la giada avesse la proprietà di preservare i cadaveri dalla decomposizione e dalla putrefazione. Ben presto si prese l’abitudine, dopo la fuga del soffio vitale, di ostruire i “nove orifizi del corpo umano” con otturatori o placchette di giada, per impedire agli effluvi malefici di uscire dal corpo. Placchette a forma di pesciolini erano posate sugli occhi, e una piccola cicala di giada sulla lingua. Quest’insetto, dalle straordinarie metamorfosi (uovo, molteplici stadi larvali, ninfa, imago ecc.) era diventato, in modo molto naturale, il simbolo della resurrezione. Bariletti ottagonali venivano posti nelle orecchie, nelle narici e negli altri orifizi.
In seguito si prese l’abitudine di cucire delle placchette su di un velo posato sul volto del morto; la loro disposizione evocava una maschera simile a quelle dei Maya di Palenque. Negli ultimi secoli a.C., 06sempre con fini di protezione profilattica, si diffuse la consuetudine di avvolgere tutto il corpo dei defunti reali o dei principi, in veri e propri sudari o lenzuola, composti da migliaia di piccole placche quadrangolari, poste l’una accanto all’altra e cucite con fili d’oro, d’argento o di ferro, a seconda del titolo principesco del defunto.
Fino a tempi recenti, l’esistenza di queste “armature” di giada si conosceva soltanto tramite alcuni testi. Dal 1968, gli archeologi cinesi hanno avuto la fortuna di rinvenire parecchi di questi sudari, che sono stati pazientemente rimontati e ricuciti da alcuni di loro.
I primi ad essere rivenuti (nel 1968 a Mawangdui) furono quelli del principe Liu Sheng e di sua moglie Dou Wan; Liu era uno dei fratelli del grande imperatore Wudi della dinastia Han (140-86 a.C.). La tomba rupestre della coppia principesca fu ritrovata fortuitamente a Mancheng, un centinaio di km a sud di Pechino. I loro carapaci protettivi - e naturalmente inefficaci - contro il deterioramento delle carni, comprendevano rispettivamente 2690 e 2516 placche di giada, cucite per mezzo di filo d’oro (1100 g. e 700 g. di metallo prezioso). Nel 1970, un altro sudario composto da 2600 placche fu scoperto nel Jiangsu, a Tushan-Xuzhou, datato intorno al 150 d.C. In un’altra tomba, sempre della dinastia Han, (intorno al 90-100 d.C.), furono raccolte 5169 placche di yu, che presentavano, all’interno delle perforazioni, alcuni fili d’oro. Infine, nel 1978, sono stati ritrovati a Pingshan, nello Hebei, gli indumenti ricoperti di giada del re di Zhongshan e di sua moglie (epoca dei Regni Combattenti; 475-221 a.C.).
Fiori e uccelli di giada 4,4 x 3 x 1,2Fiori e uccelli di giada
dim. 4,4 x 3 x 1,2
Così, dal neolitico, i cinesi non hanno mai smesso di apprezzare e di lavorare la giada e, attualmente, i lapidari di Dalian (nel Liaoning, in Manciuria) tentano di rinnovare i temi, i soggetti e i motivi di quest’arte che da un secolo buono ha iniziato a decadere. Il virtuosismo non è arte.

Tuttavia quest’arte non ha mai smesso di evolversi durante la trentina di secoli che siamo in grado di studiare. Durante la dinastia Shang (1600-1100) e la dinastia Zhou (1100-771), eccettuate le figurine aviformi e tuttotondo di Anyang (civette, rapaci, cormorani, oche, gru...), escluse alcune placchette a goccia zoomorfe (bufali, tigri, cervidi, lepri, rane, pesci e draghi) - forse ornamenti di cinture e di abiti - e fatta eccezione per le tipiche asce?pugnali cerimoniali, (dette ge, indubbiamente distintivi di funzione o emblemi di potere), gli oggetti più strani di quest’epoca arcaica sono certamente i famosi dischi Bi e gli Zong, parallelepipedi a sezione quadrata, più o meno allungati, che sembrano recare incassato nel proprio centro un tubo cavo. Questi Bi e questi Zong probabilmente sono oggetti rituali religiosi; sono stati motivo di varie controversie. Per esempio negli Zong si sono viste rappresentazioni di mozzi di ruote, di sfiati per caminetti, di ricettacoli per le tavolette degli antenati, di simboli sessuali e infine di occhiali astronomici. Oggi vengono presentati come simboli della Terra, che i cinesi immaginavano quadrata, e in connessione con il disco Bi, simbolo del sole e del cielo, che è invece concepito come un cerchio, nel medio Impero.

(estratto da http://www.tuttocina.it/fdo/yu.htm#.UbmRgtgmZ7A)

 

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