Parlando dei 145 disegni della cecità di Carlo Levi, Linuccia Saba li ha considerati una grandiosa «vittoria: dipingere cieco». Una parte del concreto risultato (ciò che l’artista torinese ha disegnato e dipinto) è stato reso accessibile e visibile al grande pubblico con il volume Carlo Levi inedito. In questo modo quel materiale ha potuto iniziare ad essere apprezzato e valorizzato a dovere.
È bene ripercorrere ed approfondire alcuni momenti legati ai disegni della cecità. Nella prima metà del 1973, Carlo Levi ha scritto, nel buio della cecità, Quaderno a cancelli , pubblicato postumo nel 1979, dall’editore Einaudi. L’ha cominciato a redigere nel febbraio del 1973, dopo il primo intervento all’occhio destro eseguito dal professor Bietti l’uno od il due febbraio – o forse già negli ultimi giorni di gennaio . Aldo Marcovecchio ha precisato che «verso la fine del dicembre 1972 Carlo Levi fu colpito da una grave malattia agli occhi (distacco della retina) […]. Ricoverato nella clinica San Domenico, a Roma, lo scrittore fu operato ai primi del febbraio 1973» (QC, p. 231). E, come confermato da Linuccia Saba, il 2 febbraio ha ripreso a disegnare. La prima data certa di Quaderno a cancelli è il 25 febbraio 1973 (QC, p. 72) – e non il 27 febbraio, come vorrebbero alcuni critici di Carlo Levi. Dopo il primo intervento chirurgico, probabilmente agli inizi di marzo, Levi è ritornato «a casa» (QC, p. 96). Tuttavia, a seguito del secondo distacco della retina, in aprile egli è dovuto rientrare in ospedale per sottoporsi ad un secondo intervento. L’ultima pagina scritta a Roma, nella clinica  San Domenico, dove Levi ha subìto i due interventi chirurgici all’occhio destro, risale al 31 maggio 1973, ossia 37 anni dopo la fine del suo confino ad Aliano (Levi  partì il 26 maggio 1936). Ma prima di mettersi a scrivere il ‘quaderno’, lo scrittore e pittore piemontese ha fatto dei disegni che hanno quindi accompagnato la scrittura in prosa ed in poesia del suo ultimo libro. Per poter scrivere il suo prosimetrum, Levi si è servito di un cosiddetto ‘quaderno a cancelli’ (una sua foto è stata riprodotta in Quaderno a cancelli). Ed anche per poter disegnare si è fatto apprestare una tavoletta adatta.
Linuccia Saba, figlia del poeta Umberto Saba ed amica di Levi, ha raccontato questa straordinaria vicenda del libro e dei disegni leviani della cecità:
“Erano i primi giorni di quella inaspettata esperienza di malattia, Carlo stava lì disteso, fermo, apparentemente paziente e tranquillo quando, guardando il calendario, vidi che era il 2 febbraio. ‘Peccato,  - dissi, - quest’anno Stefano (Stefano De Rosa, un nostro amico che compiva allora i cinque anni) non avrà la sua rosa’. E intendevo quella che Carlo gli disegnava sempre, da quando è nato, per il suo compleanno. ‘No? E perché? Dammi la carta, la penna, qualcosa su cui poggiare il foglio …’ Da quel momento, con quel primo segno su quella pagina bianca, tutto cambiò. Carlo aveva cancellato la clinica, la malattia, l’immobilità sforzata, lo squallore di quella camera anonima che avvertiva anche senza poterla vedere. E l’ambiente si trasformava sotto i nostri occhi: la stanzetta d’ospedale diventava uno dei suoi studi come quello giovanile, il primo, in Piazza Vittorio a Torino o l’ultimo, a Villa Strohlfern a Roma. Ogni giorno disegnava, dapprima in bianco e nero, presto a colori, delle cose bellissime, misteriose e leggibili. Guardava dentro di sé e vi trovava il ricordo dell’intervento, le visite dei medici, le mani aeree, di farfalla, di Bietti che lo aveva operato; oppure erano i volti degli amici e il suo di quei giorni con la barba nascente; e ancora i personaggi del libro, il ‘guerriero’ birmano; un suo universo […]. Berto, Gian Paolo Berto, suo amico e allievo, dedicava parecchie ore della giornata ad aiutarlo. Gli passava, silenzioso e devoto, i colori, sempre quelli giusti, quelli desiderati. E nessuno di noi, forse neppure Berto, soggiogato, dominato dall’intima sicurezza di Carlo, si rendeva conto dell’incredibile, della meravigliosa vittoria a cui assistevamo: dipingere cieco. (QC, pp. X-XI)”
Quante sono le opere realizzate (i disegni tracciati da Levi)? Di questo materiale l’editore Einaudi si è limitato a riprodurre un autoritratto di Levi nella sovracoperta di Quaderno a cancelli. Dei disegni della cecità si erano, per così dire, perse le tracce. Fortunatamente, Antonino Milicia ha deciso di farne pubblicare 40 nel 2002 e di esporne vari nella mostra romana del 2013. A proposito del materiale acquisito da Milicia, in tutto si tratta di 146 fogli, tra cui due del giugno 1973 che non sono però dei disegni, bensì due pagine scritte da Levi – che fanno parte dell’«appendice» di cui parla Marcovecchio (QC, p. 231). Se si tiene conto che sul retro di un disegno del 14 maggio 1973 vi è un altro disegno, in tutto i disegni della cecità sono 145. Se non si contano  i due disegni (un autoritratto ed un ritratto di Linuccia Saba) risalenti al 3 gennaio 1973, i disegni fatti nel periodo della cecità dovrebbero essere 143. Perché escludere, non considerare disegni della cecità, pure quelli del gennaio 1973, se il distacco della retina è avvenuto già alla fine del dicembre 1972, come ha ricordato Marcovecchio? A voler essere ancora più precisi, Levi ha realizzato ancora altre opere in stato di cecità visto che il disegno del 2 febbraio 1973 raffigurante una rosa, donato ad un amico, non è compreso fra i 145 da me visionati. Comunque, il 3 febbraio 1973 Levi ha disegnato nuovamente una rosa con una penna a sfera blu (si tratta molto verosimilmente di una ‘copia’ del disegno del 2 febbraio) e scritto sul foglio «ogni rosa è nera / quando è sera»: allora egli ha pressocchè fin da subito parallelamente disegnato e scritto, tanto è vero che il disegno del 5 febbraio 1973 è accompagnato da una lirica. Ma tutto lascia pensare che Levi abbia fatto ancora altri disegni di cui, a quanto pare, ha fatto dono ad amici e conoscenti. Ed anche in questa situazione, al pari di quella relativa alla stesura di Cristo si è fermato a Eboli alla quale Levi era giunto attraverso la poesia, la prosa e la pittura, emerge la ‘miracolosa’ completezza e compiutezza artistica di Carlo Levi: nello stesso periodo scrive in prosa, scrive in poesia, disegna, dipinge! Nel caso specifico della cecità, sembra che Levi abbia dapprima iniziato a scrivere in poesia, poi a disegnare, infine a scrivere in prosa – ed in poesia – e a dipingere. Infatti, il 28 gennaio 1973 egli ha scritto questa poesia:  


Se vedi scendere nevischio
lucente, o ombre bianche e nere
e il pensiero del rischio  
di non poter più vedere  
un mondo pulito, uno sguardo  
felice, intatto, neonato
pensa che forse il peccato  
non è che un ritorno, un ritardo,  
un passato che copre il presente  
dell’ombra opaca del suo niente.


21 disegni sono senza data; alcuni risalgono molto probabilmente al febbraio e al marzo 1936, più della metà è  posteriore  al  secondo  intervento  chirurgico.
I primi disegni sono stati eseguiti a penna a sfera blu (una sola volta di color verde), Levi è ricorso poi al lapis nonché a pastelli e feltri colorati. Più del settanta per cento delle opere è stato realizzato a partire dal 28 aprile 1973, dopo il secondo intervento chirurgico, avuto luogo intorno al 26 aprile (QC, p. 133), in seguito al secondo distacco della retina avvenuto il 18 aprile (QC, p. 129). Purtroppo la morte, sopravvenuta il 4 gennaio 1975, non ha consentito a Levi né di rivedere completamente il suo Quaderno a cancelli né tanto meno di stabilire cosa fare concretamente di tutti i disegni della cecità.
Tra i temi ricorrenti, oltre a quelli indicati da Linuccia Saba, numerosi Amanti, il gufo Graziadio, Narciso, qualche Nudo. Motivi, questi, che sono a più riprese ritornati nei quadri del pittore Carlo Graziadio Levi (questo l’intero nome dell’artista torinese). Nuovo, invece, il motivo dell’eroe birmano. Come si spiega il fatto che Carlo Levi disegni il guerriero birmano e che ne parli in Quaderno a cancelli? Ma è lo stesso diario pubblicato postumo a chiarire questo punto. Infatti, l’autore scrive che il professor Bietti si è dovuto assentare per alcuni giorni per recarsi nella capitale birmana Rangoon e, al suo ritorno, ha potuto parlargli dei birmani:


Il Professore è ritornato da Rangoon
ed è corso a vedermi
milleseicento templi in una città
nella foresta, e gli studi sul tracoma.
Con mani lievitanti alza il cotone
e scruta con l’occhio del sole. (QC, p. 25) 


Inoltre, il film L’Arpa birmana deve senz’altro aver stimolato ancora di più l’immaginativa leviana.
Dei 146 disegni nel volume Carlo Levi inedito è stata presentata una selezione di 40 opere atta a documentare e valorizzare in una maniera più esauriente l’ultima fase del lavoro artistico e letterario del ‘creatore’ (‘poeta’) Carlo Levi. I 40 disegni della cecità da me selezionati in quell’occasione seguivano un ordine tematico: i primi due disegni raffigurano ambedue una rosa. Come ha ricordato Linuccia Saba, la prima cosa disegnata da Carlo Levi (il 2 febbraio 1973), dopo il primo intervento chirurgico, è stata proprio una rosa, che non dovrebbe essere molto dissimile da quella del 3 febbraio. Quindi, anche per Levi si è dato un ‘fiore del deserto’: non la «ginestra» leopardiana, ma una ‘odorosa’ rosa. Poi, tre disegni concernono le persone che sono state particolarmente vicine a Levi durante il periodo di degenza ospedaliera: Linuccia Saba e Gian Paolo Berto. Altri disegni si riferiscono alle operazioni all’occhio destro e a ciò che il paziente Levi riusciva a vedere (con l’occhialino apprestatogli nella clinica San Domenico). Segue poi una serie di autoritratti ed il gufo Graziadio. Varie volte nei suoi ‘autoritratti’ Carlo Levi  ha assunto sintomaticamente le sembianze di un gufo – ed egli possedeva inoltre un gufo che aveva chiamato proprio Graziadio. Pablo Neruda, ritratto da Levi, ebbe a dire:
“Mentre mi ritraeva nell’antico studio, il crepuscolo romano discendeva lentamente, i colori si attenuavano come se il tempo impaziente rapidamente li consumasse; - si udivano i clacson delle automobili che correvano verso le strade della campagna, verso il silenzio, verso la notte stellata. Sprofondai nell’oscurità, ma egli continuava a dipingermi. Il silenzio finì per divorarmi, però egli seguitava forse a dipingere il mio scheletro. Perché i casi erano due: o le mie ossa erano fosforescenti, o Carlo Levi era un gufo, aveva gli occhi scrutatori dell’uccello della notte.“
In un certo senso, si può allora dire che il disegnare ed il dipingere al buio è stato proprio dell’artista torinese che, come è stato notato da alcuni critici, faceva nascere le sue opere d’arte dal più profondo dall’anima e dalla memoria. Ciò vale a maggior ragione per i disegni della cecità, sortiti senza ombra di dubbio dalla profondità insondabile del ‘gufo’ Carlo Graziadio Levi. Gli Amanti costituiscono una costante, uno dei temi tipici di Carlo Levi, di cui esistono anche statue e litografie. In un’occasione egli ebbe a dire:
Da moltissimi anni, quasi all’inizio della mia pittura, il motivo degli ‘Amanti’ ritorna nei miei quadri, nei miei monotipi (e perfino in certe mie statue) variando secondo i tempi e le vicende e l’età, e il colore del sentimento […]. Ma, come ho detto, questo motivo mi aveva sempre seguito o esplicitamente, o in altre forme e apparenze. È il motivo della Persona e dell’Altro; dell’Uno e del Due; della doppiezza unita che è nelle cose: è il motivo dello specchio, dell’acqua, di Narciso; dell’indistinto, della differenziazione e del ritorno all’indistinto originario; della separazione e del sacro; dell’amore come relazione e dell’amore come libertà.
Illuminanti le considerazioni di Guido Sacerdoti, uno dei sette nipoti di Levi, in relazione agli Amanti:
“Alcuni dei primi Amanti sono esplicitamente ritratti. Il personaggio maschile è lo stesso Levi, la donna è Paola O. [Paola Olivetti, moglie dell’ingegnere Adriano Olivetti]. Lui resterà fino alle ultime prove (1974), lei subirà varie reincarnazioni […]. Gli Amanti, come si è detto, aderiscono ad un modulo fisso rappresentato dal viso di un uomo e di una donna che si baciano. Nello schema prevalente il volto dell’uomo è di profilo, quello della donna giace di tre quarti. Spesso si intravedono mani che cingono ed accarezzano; qualche volta compare una spalla, un seno, raramente lo sguardo scende più giù. E non certo per ragioni di autocensura, ma per esigenze figurative e di contenuto. Levi, infatti, mira ad una struttura rigorosamente chiusa, circolare od ovoidale, che non disperda la tensione emotiva, quale si ottiene disegnando per l’appunto due emivisi che si fondono in uno. Siamo con ciò lontanissimi dai canoni di certa pittura erotica novecentesca […]. Sono i volti degli Amanti, mediante l’intreccio delle chiome e la fusione delle labbra, a copulare .“
 Il tema degli Amanti  è, come ha riconosciuto lo stesso Levi, una variante di quello di Narciso e della «doppiezza unita», ossia della Madre. Questi tre motivi ripropongono le tematiche prettamente leviane della conoscenza, della conoscenza di sé, della scoperta (o invenzione) della verità. Non è quindi affatto casuale che Levi ricorra a questi tre motivi che si ricollegano e combaciano alla perfezione con le riflessioni contenute in  Quaderno a cancelli. Sia scrivendo che disegnando (tanto con la matita – o la penna – che con i pennarelli) Carlo Levi ha rievocato l’«immortalità» perduta, «quel cerchio perfetto, quella sfera simbiotica, quella unità senza macchia né fessura, quel due in uno, quell’altro non mai altro, quella eternità di vita […] quella pienezza, quella energia tutta chiusa nella sfera perfetta, quella verginità erotica, quella ambiguità unitaria, quella ambivalenza che sola è onnivalente» (QC, p. 27). Oramai la Madre è morta: «rotta la naturale unità della sfera materno-filiale, dell’uovo, della curva perfetta e senza paura, comincia il tempo, l’individuo, la paura, la storia, gli avvenimenti, il terrore del buio, l’insonnia, la malattia, cioè la civiltà e la cultura» (QC, p. 29). Infine, gli ultimi sette disegni del libro Carlo Levi inedito riproducono personaggi e soggetti di “Quaderno a cancelli”, tra cui spicca il già citato Eroe birmano, simbolo della persona ‘malata’, in quanto ha perduto l’immortalità.
Va anche precisato che l’espressione “quaderno a cancelli” risale in realtà a Rocco Scotellaro che, nella poesia “Dedica a una bambina” (1952), scrive:


Questo piccolo quaderno a cancelli
l’ho scritto per te di cui non parlo
per i tuoi occhi chiusi e i tuoi capelli
di cera, il naso che non può fiutarlo.


Il “quaderno a cancelli” evocato dal sindaco-poeta di Tricarico pare essere il quaderno delle prime quattro classi elementari di un tempo: cancelli in prima elementare con barre orizzontali e verticali, da cui, classe dopo classe scomparivano le barre verticali e restavano quelle orizzontali, come binari sempre più stretti, per guidare la scrittura degli alunni. L’espressione “quaderno a cancelli” ha poi dato il titolo all’ultima sezione di poesie di “È fatto giorno” (1954), pubblicate a cura dello stesso Levi. E non è un caso che, nella parte inedita del “notturno” leviano, venga citato anche Scotellaro, una delle poche persone ad aver contato nella formazione della vita dello scrittore torinese.