È evidente che una conquista liberatoria dell’arte contemporanea sta nel superamento delle rigide categorie sia stilistiche che tecniche e nel contempo, delle separazioni tradizionali fra scultura, pittura, tecnologia digitale ecc. le quali annullandosi consentono all’artista l’impiego, spesso nella medesima opera, dei materiali più disparati. Con le più ampie disponibilità di mezzi anche gli strumenti informatici trovano nell’arte un utilizzo sempre più frequente e percorsi inventivi entusiasmanti. L’ultima Biennale veneziana rappresenta, in tal senso, una testimonianza importante entrando nel cuore di questi percorsi di ibridazione e offrendo, in molti casi, risultati a dir poco affascinanti.
La illimitata libertà di linguaggi e di materiali innovativi rende particolarmente attraente, forse per contrasto, il lavoro di artisti che si muovono nel senso opposto e si avvalgano di “vecchie” tecniche tradizionali della pittura. Il riferimento riguarda, nel caso presente, Dario Ballarin con i suoi acquerelli ma potrebbe essere esteso a tutti quegli artisti che pur muovendosi, per cultura e formazione, sulla strada della modernità conducono una ricerca impegnativa attraverso l’uso di linguaggi e materiali piuttosto desueti, d’altri tempi, mezzi espressivi che hanno lasciato certamente un segno di grande nobiltà e poesia nel tessuto dell’arte ma che oggi sembrano anacronistici rispetto al panorama attuale e alla frenesia contemporanea. Tecniche tramontate delle quali talvolta rimane solo il ricordo e molte splendide opere del passato. In quanto a tramonti il primo pensiero va alle tecniche incisorie e nello specifico all’acquaforte, con le sue innumerevoli varianti e con esse il  torchio a mano, strumento magnifico, per fortuna ancora in uso nelle Accademie di belle Arti. Lo stesso discorso può valere per la litografia manuale; una tecnica sublime con la quale molti artisti in passato realizzarono autentici capolavori, su pietra in particolare, tutte forme di una alchimia creativa secolare che non resistono all’imperio dei nuovi mezzi di riproduzione. Dario Ballarin, in questa fase del suo lavoro, indirizza la voglia di anacronismo verso l’acquerello: una tecnica di pittura quasi completamente desueta, almeno nello spirito originario che sembra essere in fondo quello che interessa maggiormente l’artista.
A giudizio di chi scrive, l’acquerello è sicuramente una delle tecniche più ostiche: linguaggio antico, molto impegnativo, veloce ma esigente, umile senza dubbio ma proibito sbagliare. Ancor più difficile quando lo si voglia piegare ad uno stile o, ancora di più, ad una idea originale, a un pensiero forte che, del resto, dovrebbe essere il nucleo centrale di un’opera d’arte. E sembra siano queste le difficoltà affrontate da Ballarin, il centro del suo impegnativo rapporto con il mezzo che ha scelto per dipingere e dar vita con una serie di fogli ad un progetto molto privato, talvolta solitario che si espande gradualmente fino a diventare una ricognizione del mondo. Lo si coglie con facilità in questa cinquantina di carte, talune di notevoli dimensioni, le quali, spesso con risultati eccellenti, esprimono la disciplina di un impegno costante, quotidiano e il rigore di una ricerca molto seria.
L’acquerello, così come lo intende Ballarin, diventa, per taluni aspetti, meditazione ed esigente controllo del gesto e della materia, dosaggio della luce, equilibro dei toni, in sostanza tutto ciò che  consente al pittore di infondere un’anima alla forma. Riflettendo sui risvolti “animistici” presenti nelle opere di Dario, come non accennare agli studi di Paul Klee, agli orientamenti didattici di questo maestro dell’acquerello all’epoca del suo insegnamento al Bauhaus e all’intimo rapporto fra musica e pittura, cercato dall’artista per tutta la vita? Come, del resto, non è superfluo ricordare, in questo contesto, che fu un acquerello del 1910 la prima opera totalmente astratta dipinta da Kandinsky.
Certo non si può definire Ballarin un artista dell’astrazione, al contrario, nei suoi dipinti si evidenziano spazi e cose di concreta realtà, spesso si tratta di paesaggi consueti, famigliari, ma talvolta e a nostro giudizio nei casi migliori, quella stessa realtà si dilata, modificando gli originali contorni; il colore asseconda spontaneamente la propria natura liquida e in tal modo avviene una sorta di fusione non controllata. Le immagini reali di un edificio, di un muro, il profilo di un campanile, di una barca, di un lontano cantiere o addirittura l’acqua (molto presente nel lavoro di Dario) perdono di realismo per assumere altro disegno: figure percepite dentro spazi indefinibili, misteriosi. In questi casi l’opera si arricchisce di un lirismo libero da eccessivi formalismi e, a nostro giudizio, più vicino a quella spiritualità che nei dipinti di Ballarin si intuisce ovunque come una esigenza irrinunciabile. Tutto questo è ancora più evidente dove la pittura, si fa quasi monocroma, silente, frutto di poche pennellate larghe e purissime e in quell’opera stessa si perde ogni connotazione del vero e nell’intimo ciò che domina è la luce nelle sue molte vibrazioni. Dolce il momento in cui il colore si dissolve spontaneamente nel biancore della carta con risultati che ricordano la grazia di antiche carte acquerellate, magari dipinte da pittori naturalisti o la meraviglia di vecchie topografie.
C’è molta tradizione nel lavoro di Ballarin e si sente il ricordo di svariati “amori”, forse non tanto o non solo per la sapienza tecnica e innovativa che lo studio di alcuni artisti del passato gli ha saputo trasmettere, ma soprattutto per lo spirito vitale e la magia che ancora oggi certi fogli del passato mantengono intatti per valori estetici e forza di contenuti. Turner rappresenta, senza alcun dubbio, uno di questi amori, un punto fermo negli acquerelli recenti di Ballarin. Se ne colgono le ragioni più o meno occulte, il riferimento si limita alla serie strepitosa degli acquerelli veneziani di Turner. Forse qui può essere calzante la considerazione tratta da una nota di Romanelli nel bellissimo catalogo edito in occasione della mostra veneziana dell’artista inglese nel 2005. Parlando del rapporto di Turner con Venezia Romanelli scrive tra l’altro: “…ne aveva colto l’ineffabile sottofondo, l’inesprimibile angosciante basso continuo come di ondate di sofferenza, di malattia.” Ovviamente, su piani diversi non sfugge il fatto che gli acquerelli di Ballarin siano pervasi da un latente disagio, una sorta di incombente profezia, sospesa. In talune opere, dove il paesaggio si fa appena percettibile affiora, con malinconia, un senso di struggente caducità che penetra ovunque e si ha l’impressione che ogni cosa debba fatalmente scomparire vinta da una malattia indefinibile. A nostro giudizio si tratta, oltre che di scelta poetica, di una visione del mondo che in questo artista si manifesta, e non solo in pittura, con un solido spessore morale.
Per quanti conoscano Dario personalmente e lo frequentino da tempo, può essere appena più agevole entrare nel suo immaginario e scoprirne i risvolti esistenziali: riservato, riflessivo, spesso taciturno, delicatissimo nei rapporti  umani, tutto ciò lo si coglie anche riflesso nel suo lavoro. Potremmo azzardare un ulteriore ipotesi e cioè che nelle recenti scelte di lavoro Dario abbia fatto tesoro di alcune nuove esperienze e quel colpo d’ala che si riscontra negli acquerelli arrivi da uno studio più organico e da una più aggiornata maturità estetica. Siamo anche convinti che il viaggio non si concluda qui e che l’avventura riservi in futuro frutti ancor più sorprendenti. Di certo per Dario contano anche le amicizie di questi anni e cioè Il rapporto ricco di stimoli stretto con alcuni colleghi attivi nel suo stesso territorio e in particolare con Attilio Penzo, il geniale e solitario artista di villa Papadopoli, insomma un insieme di condizioni che concorrono ad evolvere e a maturare il suo linguaggio.
Chioggia è la città di Ballarin nel senso più profondo del termine. Di proposito abbiamo tenuto in chiusura alcune riflessioni su questo habitat, il luogo del tutto speciale presente nella maggior parte delle opere dell’artista. Infatti siamo convinti che Chioggia con il mondo d’acqua che la circonda e tutte le sue implicazioni umane, rappresenti il paradigma irrinunciabile di una ispirazione, l’organismo monocentrico che contiene ogni possibile valore e tutti i risvolti dell’immaginario. Non c’è foglio del pittore che non ne racconti un dettaglio, una improvvisa apparizione, un volo sentimentale, si tratta di una sensibilità non episodica, maturata in quell’ambiente attraverso le molte esperienze di vita.
Del resto, anche solo con un breve soggiorno, si può già intuire quale grazia e quale energia questa città possa esprimere.
A questo punto si potrebbe parlare del rapporto affettuoso che gli artisti di Chioggia hanno da sempre con la loro città e per averne una idea basta sfogliare il bel catalogo pubblicato in occasione della mostra allestita nel museo civico e dedicata agli artisti chioggiotti del passato, scopriremmo che Chioggia, città del mare, amata da Goldoni, sorella minore di Venezia, è un tramite perfetto con l’arte e con la poesia ma rischieremmo di divagare troppo.