Per Giorgio Casarin si può parlare di “Arte come mestiere” intesa in primo luogo come capacità operativa, anche a livello artigianale, cioè conoscenza profonda del ‘mestiere’ inteso come appropriazione di tecniche, strumenti, materiali, ovvero tutte quelle informazioni e nozioni che consentono il ‘saper fare’ nel campo dell’arte. In secondo luogo il ‘mestiere’ consiste nel saper realizzare, attraverso i più diversi strumenti concreti, idee e pensieri comunicabili solo otticamente, cioè nel dare a questi una ‘forma’ che sia reale, che possa agire sulle nostre capacità ricettive attraverso l’apparato visivo.
04Svolgendo il suo lavoro Casarin ha ampliato il significato della parola ‘pittura’ fino a quello di ‘formazione di immagini’. Tali immagini possono essere sia quelle della pittura intesa in senso tradizionale, cioè la pittura fatta con i colori ed i pennelli, sia quelle che vengono prodotte con gli strumenti che la tecnica mette a disposizione del ‘fabbricatore di immagini’.
Casarin intende il mestiere come un modo per contribuire con le sue opere a un discorso valido per tutti, con delle immagini lineari, semplici, basate su elementi facilmente identificabili che possono stimolare emozioni nell’osservatore senza vincolarlo a suggestioni preordinate; cioè vuole che ciascuno secondo la sua capacità, sensibilità e preparazione culturale riesca a recepire e a gioire relativamente al messaggio che l’Artista intende condividere.
Casarin concepisce dunque il suo ‘mestiere’ come ricerca, vale a dire l’articolazione di un medesimo pensiero secondo i differenti modi di comunicazione e perciò di lettura dell’immagine, utilizzando, come detto, le risorse di varie tecnologie. Una coerenza da non confondere né con la ripetizione dei moduli stilistici né con il cedimento, per eventuale stanchezza o furbizia, a qualche atteggiamento di moda.
Casarin si distingue, fin dalle prime apparizioni in collettive negli anni settanta e ottanta, per una liricità evanescente, quasi segnale (forse perfino metafora) di fitti e intricati reticoli, dai quali cominciano tuttavia ad apparire personaggi non privi di gesticolazione ironica, ombre leggermente meccaniche, impronte lasciate come da manichini di passaggio.
Negli anni duemila, più in particolare dal 2012, le qualità associative e di invenzione di Casarin paiono essere attratte da una dimensione ludico-magica, avendo sempre un occhio di particolare riguardo per i temi sociali come nell’opera I profughi (2017).01
Le sue opere contengono ricordi che si intuiscono lontani, come la serie sui paesaggi; i suoi personaggi sono dei solitari, vedi Giorno d’estate (2017), anche quando come in A passeggio (2017) sono in compagnia. C’è nelle opere dell’ironia, del divertimento, e il divertimento diventa critica: si estrania dal contesto socio-commerciale-consumistico per esercitarsi sul sociologico, con agganci al fumetto, al film d’animazione, quasi incrociando il fatto di cronaca
Il percorso di Casarin è lineare, nell’ordine di un medesimo pensiero secondo i differenti metodi di comunicazione ma intimamente coerente. La sua immaginazione, sempre legata a un’oscura ma evidentemente naturale necessità di epifanie mobili, per quanto tradotta in forme o formule diverse ha continuato a muoversi attorno a un punto, al quale non deve essere estranea né una sorta di sollecitazione letteraria né, soprattutto, una certa qualità teatrale: la possibilità di un racconto analogico attuato per scompiglio e riorganizzazione (dall’interno come in superficie, per analisi dei congegni come per precisazione della forma portante, vedere come esempio le incisioni La musica e Teatro Olimpico). Ne deriva pertanto una formazione di immagini contraddistinta da una combinatoria di forme semplici, strutturantesi per eterodossia di varianti suggerite dall’impiego dei vari materiali, fino a costruire quell’armonico rapporto di segni che viene organizzandosi al momento della messa in opera. In altri termini Casarin concepisce la formazione di immagini come un’articolazione di elementi componibili, per relazioni analogiche oppure simboliche, conseguenti al linguaggio della comunicazione visiva.
21Per un fabbricatore di immagini come è Giorgio Casarin, il linguaggio è compresente nella ricerca, meglio nel mestiere come ricerca, che informa in progress la poetica dell’immagine, rigorosamente puntualizzata attraverso il rapporto di segni. I segni che visualizzano le ragioni epistemologiche del discorso, geometricamente scandito nella campitura spaziale delle costruzioni geometriche, in ordine simmetrico oppure asimmetrico, secondo la dinamica degli svolgimenti costruttivi che caratterizzano la formazione dell’immagine. Immagine concreta del pensiero astratto, come realizzazione dell’essere nella presenza dell’opera. Così la morfologia dell’immagine acquista una proprietà reale, autonoma, visivamente traducibile in “messaggio” per analogie significanti.
La concezione epistemologica dell’arte di Casarin, qualificante la non ripetitività del lavoro di ricerca, è connessa alla laicità operazionale dell’artista, non più interprete o co-autore di programmi iconografici prestabiliti da una committenza, ma in quanto produttore di immagini riflettenti o anticipanti le problematiche della contemporaneità.
Esiste, quindi, nell’opera di Casarin una continuità interna, una linea che passa (magari a corrente alternata) anche attraverso le varianti più vistose e apparentemente discordanti per giungere alle risoluzioni ultime con la stessa carica di invenzione e di personalità che si riconosceva al pittore fin dalle prime prove degli anni settanta.
Nel considerare, a distanza, il percorso artistico di Giorgio Casarin, e non tanto per storicizzarlo fissandolo su un preciso momento culturale attraverso il tentativo di recupero dell’immagine tramite una nuova definizione di oggetto e verso un’articolazione di tipo narrativo, quanto per indagarne le componenti in base a una serie di raccordi intenzionali interni, molto grossolanamente ma utilmente si potrebbe cominciare con l’individuare tre fasi.
Quella iniziale, della dominante figurativa, ma con indizi di una iniziata liberazione stilistica.
Quella centrale, avviata a una riappropriazione dell’immagine esterna fino al tentativo di restituire l’immagine in vero e proprio oggetto tangibile, e però oggetto di se stesso in molti casi.
Infine la terza fase, iniziata da tempo, e che si potrebbe definire una somma assai articolata delle precedenti: nella quale l’oggetto torna ad essere immagine mobile, si animalizza o umanizza, si espone come meccanismo allucinato e spesso ironico, si avvia verso un racconto.
Oggi ha finalmente trovato quella che mi sembra la via maestra per il suo iter pittorico: quella d’una calibrata stesura di forme astratto-geometriche, quasi tutte redatte con l’uso di colori acrilici e ad olio con aggiunta di materiali diversi come colle cementizie, legno, stoffa, tecniche calcografiche e quant’altro possa servire al suo scopo
Entro una scarna possibilità compositiva -dove dominano il quadrato, il rettangolo, il cerchio e appare la sagoma del triangolo-, notiamo subito la presenza d’un elemento vitalizzante, vivificatore; sia che si tratti delle qualità molto peculiari del colore, e di certe nuove e inattese aperture della forma.
Un colore, dunque, estremamente vibrante, a volte trasparente a volte coprente; un colore esattamente delimitato dai limiti geometrici che gli sono imposti.
Questo fatto produce nello spettatore una sensazione di intima irrequietezza, di instabilità e di titubanza, che è quanto mai efficace, perché aggiunge alla solida e statica superfice del dipinto una nuova e diversa qualità dinamizzartice e organica.
Anche un semplice quadrato, anche un rettangolo, può vibrare, può essere vitale, può superare la sua natura essenzialmente geometrica e caricarsi d’impulsi e di tensioni che lo traducono in elemento autonomo.
Ma è un dato di fatto che in questa sua ultima stagione l’artista si è liberato tanto dell’esuberanza cromatica che d’una sua più antica fase figurativa.