Padova non sarebbe Padova il giorno in cui sull'animatissimo merca­to cittadino non sovrastasse la Sala della Ragione, ovverossia il Salone co­me é ormai comunemente chiamato, severa quanto poderosa costruzione "rinascimentale" anche se la sua ossatura sia ancora decisamente romanica. Né é nato certamente così come lo vediamo attualmente, il nostro Salone, sia nella struttura interna come nell'esterna, quella fondamentale cioè (che noi sappiamo quale importanza aveva lo esterno di una costruzione ar­chitettonica per gli antichi). Così nem­meno si tratta, come potrebbe sembrare, di una stupenda "costruzione" di grande monumento fatto magari in ga­ra con qualche coeva e "grande" co­struzione consimile tirata su da una cit­tà vicina. I nostri padri erano troppo equilibrati in tutte le loro manifesta­zioni per poter pensare una qualsiasi costruzione o opera che sotto la bella forma, non contenesse l'aspetto utile, l'aspetto pratico e terreno dell'opera stessa.

Costruito nei primi anni del secolo XIII (121819 a credere a una lapide scritta dai nostri padri), da certo P. Cozzo da Limena, nel 1307 subisce una trasformazione profonda, per opera di Fra Giovanni degli Eremitani, già ar­chitetto della Chiesetta di Giotto degli Scrovegni e della bella e ariosa chiesa romanica degli Eremitani, ricostruita dopo lo scempio criminale subito du­rante la guerra per opera dei bombar­dieri alleati.

Non sappiamo con precisione come era la Sala della Ragione nella primiti­va costruzione, che quasi certamente comunque doveva avere la pianta at­tuale, ma é certo che con Fra Giovanni degli Eremitani la Sala della Ragione diventa decisamente "Il Salone" per antonomasia, e un superbo salone so­praelevato quale tutt'ora pochi simili esempi, anche per capacità tecnica, può dare il mondo intero.

Anche per l'Eremitani non sappia­mo, comunque, se nel progetto com­prese le logge ad archi, primitivamen­te, sembra, a semplice forma di terraz­ze. Come non sono più nemmeno del XIII secolo i due lunghi e bassi portici laterali aggiunti attorno al 1465, non sappiamo per mano di chi, ma quasi certamente dal maestro d'opera del Comune dell'epoca (né dobbiamo troppo rallegrarci per quest'ultima ag­giunta quattrocentesca dei due lunghi e bassi portici perché in realtà ha finito per allargare e appesantire troppo la base stessa del bell'edificio, certamente più snello ed elegante quando di slan­cio si elevava sulle basse logge del pri­mo piano).

Sappiamo, del Salone, che nel 1756 (il 17 agosto per essere precisi) subì gravi danni durante un uragano, tanto da averne la volta del tetto semiaspor­tata (ma subito dopo ricostruita). Più gravi conseguenze ebbe però l'incendio del 1420 che distruggendolo quasi completamente, polverizzò pure le de­corazioni che Giotto, doveva avervi dipinto.

Comunque oggi il Salone, questa autentica "meraviglia" della nostra città (che servì da modello al grande Palladio per la costruzione della sua Basilica di Vicenza), ora é quello che é, ed ha quel poco di vita che la nostra sonnacchiosa società riesce a dargli (tanto che, ormai, solo e proprio le manifestazioni "più volgari", come i comizi politici, riescono a portare un po' di vita e un po' di sangue nuovo a questo nostro meraviglioso Salone).

Che non é nemmeno un vero Mu­seo, come potrebbe essere se fosse or­ganizzato in modo da valorizzare le de­corazioni a fresco; né basta a ravvivarlo il così detto modello in legno del Ca­vallo di Donatello, che in realtà non é una copia costruita per feste e tornei (e la cui testa fu ricostruita addirittura nel secolo scorso).

A chi spetterebbe il compito di va­lorizzare culturalmente (turisticamente é ben altra cosa) il nostro Salone, e le opere d'arte, sia pure minori, che lo decorano? Sappiamo bene, a chi spet­terebbe, ma preferiamo intanto dire qui, anche succintamente, delle opere d'arte che ogni cittadino può ammirare in questa sala sopraelevata, che misura metri 28 circa di larghezza per 79 di lunghezza.

Accompagnate da un vero mare di simboli astronomici e astrofisici (segno questo di quanto forte fosse il sentimento della superstizione nel secolo d'oro della fede religiosa) coprono le pareti tutte le "storie" degli anziani, e degli apostoli, alternate, nei vari ordi­ni, alle più disparate attività sia di pen­siero che di opere fino al "gruppo" dell'uomo che si redime. Ricorderemo particolarmente il bell'affresco della Madonna in trono (che volge le spalle, per così dire, al "nuovo" palazzo mu­nicipale, che é del XVI secolo): affre­sco che ci sembra di bottega padovana vicina al Guariento; e le belle statue egiziane, donate a Padova, dal grande esploratore africano G.B. Belzoni; e, sul piccolo lato opposto, il busto cin­quecentesco di Sperone Speroni, e il già ricordato cavallo in legno "di Donatel­lo" come impropriamente si dice. Non vanno dimenticate le belle decorazioni a basso rilievo che ravvivano le logge, e i busti di Tito Livio, del Teologo Al­berto da Padova, e di Pietro d'Abano, grande medico e filosofo padovano; oltre che di personaggi più recenti (co­me il Paleocapa ingegnere e uomo di stato), ecc.

Vorremmo ora dire due parole su un oggetto che se ora può semplicemente suscitare divertita curiosità, ha una storia e un significato che ci ripor­ta di colpo alle origini e alla funzione profondamente sociale della Sala della Ragione.

Si tratta di una piccola, disadorna e scura "Pietra del Vituperio" che ora se ne sta in inutile tranquillità a pochi me­tri dalle statue dell'antichissimo e lon­tano Egitto.

Tutti sappiamo a che servisse que­sta bella pietra: il debitore, il bancarot­tiere acciuffato dalla Giustizia, ridotto in mutande e camicia, doveva sedersi e alzarsi tre volte di seguito e pronunciare ad alta voce una frase sacramentale, di fronte ai giudici e al debitore insod­disfatto.

Questa piccola pietra posta in un edificio così grande e severo ci sembra un segno d'una società sana, nella mo­ralità pubblica e privata. Una moralità che non doveva esser troppo peggiora­ta dai tempi di Marziale, quando le fanciulle padovane erano ritenute esempi di castità...

Davvero il Palazzo della Ragione era sintesi e rappresentazione di tutta la società cittadina; ed era simbolo d'una società democratica. Non é sen­za significato il fatto che esso fu co­struito dopo la vittoria dei Comuni sul Barbarossa, dopo cioè che Padova era diventata una città che poteva vivere e lavorare nella libertà. Era certamente la Padova di allora, una città assai più piccola di quella di oggi: eppure allora si pensò di costruire un salone lungo 79 metri e largo 28 metri, per permettere a tutti i cittadini di ascoltare e discutere le relazioni dei loro amministratori e capitani. Oggi, ai cittadini padovani sono destinati pochi metri quadrati nell'aula del Consiglio Comunale!