Se per le persone di cultura e i competenti di tutto il mondo é cosa ov­via dire che il Giotto degli Scrovegni é il nucleo fondamentale e più poderoso e giunto a noi quasi interamente intatto dell'opera figurativa di Giotto, biso­gna dire però che l'interesse dei nostri concittadini per il genio di Giotto, e le loro conoscenze, arrivano tutt'al più alla bella storiella dell'o perfettamente tondo, fatto di colpo, e a mano libera. Non c'é che dire: a parte quel poco di calore turistico che convoglia agli Scrovegni un po' di gente nei mesi di buona stagione, per il resto dell'anno la «chiesetta» di Giotto, come é affet­tuosamente chiamata dai padovani, resta ai margini della vita cittadina, tra l'indifferenza di cui é purtroppo cir­condata nel nostro paese ogni opera d'arte, sia pure ricca di profondi e va­sti valori spirituali, e sia pure di imme­diato e quotidiano possesso com'é per i padovani il meraviglioso ciclo pittorico di Giotto! Sarebbe, tra l'altro, molto utile alla nostra città una maggior dif­fusione di letteratura giottesca, anche semplicemente informativa. Purtrop­po, pare che i padovani (tra i quali operano a non fare altri nomi, un prof. Fiocco o un prof. Bettini), vogliano lasciare agli stranieri (o comunque ai «forestieri») il compito di far conoscere o comprendere l'importantissima opera di Giotto, che a Padova ha lasciato il meglio di se stessa.

Perciò riproponiamo dalla «Tribu­na» questo tema di Giotto nella sua esigenza più propria, nella sola degna di questo nome. Siamo certi che può e deve sparire la quasi totale indifferen­za che ancora circonda, qui a Padova, una opera ricca di valori inestimabili così generosa di bellezze pittoriche, e più ampiamente poetiche, che negli af­freschi degli Scrovegni trovano uno degli esempi più ampi e sbalorditivi.

E ancora il problema, dunque, d'una impostazione culturale nuova veramente popolare, capace di abbrac­ciare e interessare tutta la vita cittadi­na, la cui vitale esigenza ci auguriamo sempre che induca le nostre autorità cittadine ad abbandonare la proverbia­le tirchieria con la quale trattano i fe­nomeni artistici (basta ricordare, tra i fatti più recenti, il deplorevole aumen­to apportato ai prezzi d'ingresso alla Cappella degli Scrovegni e al Museo). Solo ponendoci su nuove basi, veramente larghe, razionali e vive insom­ma, solo così ci sarà dato di sfatare l'opinione che la cultura e l'interesse per i fatti «superiori» dello spirito siano una questione di pochi individui previamente scelti dall'Ente che gover­na l'universo. Mettendo a disposizione per i fatti della cultura i mezzi finan­ziari sufficienti si supererà anche la insignificante e miserabile attività edito­riale su cui poggia ancora la cultura ar­tistica nostrana. Non solo infatti deve veramente rinascere (o nascere) l'inte­resse per la cultura e per quella cittadi­na in particolare, ma si dovrà pensare pure a quell'azione editoriale elemen­tare e popolare che finalmente porterà sul fiume più largo possibile della cul­tura ogni cittadino capace di distinguere e sentire la bellezza della poesia.

E parliamo un po' di Giotto, final­mente, del Giotto «Padovano» degli Scrovegni, che é come dire della ragio­ne stessa di questa nostra nota, e rubri­ca, cominciando magari con una pa­rentesi tesa a giustificare la nostra defi­nizione di un Giotto «padovano».

Due cieli di affreschi, di proporzio­ni poderose e di valore altissimo, conosciamo di Giotto, e sono quello degli Scrovegni e quello della chiesa superio­re di Assisi (infinitamente più limitato, quello fiorentino di S. Croce.); ma il secondo si può considerarlo, nella sua situazione attuale, piuttosto come un totale rifacimento o quasi dell'origina­le, giunto a noi in condizioni pietose, da cui é resuscitato grazie all'opera di restauro che spesso ha dovuto rifarlo (esempio per tutti, la predicazione di S. Francesco agli uccelli) e comunque ri­marrebbe, rispetto al ciclo degli affre­schi di Padova, una grandiosa esalta­zione della fantasiosità del genio di Giotto, tutto proteso, sembra, a fer­mare la infrenabile «tarantola» di mi­sticismo di cui era ancora zeppo il prin­cipio del trecento, pure già decisamen­te avviato alla rinascenza.

Per il ciclo di pitture degli Scrove­gni, realizzato in pochissimi anni all'inizio del 1300, sembra che il genio di Giotto abbia fatto una prodigiosa operazione per toccare un grado tanto alto di umanità e di semplicità, che ben rare volte è stato dato di raggiungere in tutta la storia delle arti figurative. Mentre ad Assisi sembra preoccupato di fermare e dare corso alle più infre­nabili fantasiosità ancora medioevali, a Padova la sua mano prodigiosamen­te docile sembra muoversi in una materia di figurazioni di grande forza pla­stica, come obbligate a un numero es­senziale in fatto di personaggi e di ele­menti naturalistici: poca terra, come chiusa a impeccabile distanza da un co­ronamento di nitide e geologiche mon­tagne. Per la prima volta nella storia della pittura Giotto scopre il peso fisi­co degli oggetti, da un lato, e per altra via si serve del colore come del segno più limpido e cantante di una primave­ra eterna, sì che anche la poderosa e terrena fisicità delle persone e degli og­getti (« le persone di Giotto si possono toccare») dà al suo mondo pittorico come l'idea di una realtà cui più nulla manca. L'estrema semplicità e chiarez­za e intensità dei colori primaverili e «fermi» cui Giotto ricorre per realiz­zare le sue composizioni, non é più, co­me in Cimabue e negli altri maestri precedenti, «stilizzazione» astratta della realtà, in cui il particolare viene scientemente eliminato come elemento estraneo (o terreno), ma una chiara quanto sapiente annotazione in sintesi d'ogni minimo «particolare» indi­spensabile a rendere naturali, vere e «vive», le persone vive, con tutto il ca­rico di umani sentimenti e terrene pas­sioni che di volta in volta la figurazio­ne deve rappresentare.

Questo é il significato più importante della prodigiosa rivoluzione pit­torica raggiunta da Giotto negli affre­schi degli Scrovegni: dalle forme anco­ra ieratiche del suo grande maestro Ci­mabue, ancora come inchiodato alle medioevali figurazioni da finimondo, Giotto passava con estrema decisione alla più ampia e completa libertà di lin­guaggio.

Si può dire che quanto di tenebroso e medioevale restava ancora nella pit­tura trecentesca abbia ricevuto dall'opera di Giotto la definitiva e chiara liquidazione, i personaggi evan­gelici o bliblici di Cimabue in Giotto diventano le persone vive e reali della sua società, quella del suo cerchio limi­tato o quella più larga di tutto il suo popolo. E ancora Giotto che calerà nelle sue figurazioni i primi ritratti, e una visione realistica del mondo degli animali e delle piante.

La pittura di Giotto appare così co­me un'espressione fondamentale per la comprensione storica del suo tempo, in cui la società italiana si organizzava economicamente in forme moderne, e nell'ampiezza degli scambi commerciali e nel fiorire delle attività manifattu­riere trovava i presupposti di quella li­bertà intellettuale che costituì la base dell'umanesimo rinascimentale.

Fu tanto nuova l'opera pittorica di Giotto da sbalordire letteralmente i suoi contemporanei. Ed é estremamen­te interessante per noi e certo meritevo­le di studio, il fatto che il momento più importante di questa rivoluzione arti­stica abbia avuto come teatro la nostra Padova.