Un tema ricorrente nella bibliografia su Bruno Caraceni, esigua ma punteggiata dall’approvazione di molte tra le firme più illustri della nostra critica d’arte (Lionello Venturi, Maurizio Calvesi, Filiberto Menna, Alberto Boatto, Maurizio Fagiolo…), è lo stupore per la sua mancata acquisizione nella rosa dei “noti”. Lui che si trova a studiare all’Accademia di Venezia alla fine degli anni Quaranta, proprio quando vi si concentrano le forze artistiche che fanno ripartire i lavori interrotti durante la guerra; lui che è a Roma negli anni dell’Informale, pieno di vita e di vis polemica e, soprattutto, capace di scegliersi Burri come ideale interlocutore; lui che, ben prima della fine degli anni Cinquanta, sviluppa una sua personale ricerca che si posiziona efficacemente “dopo l’Informale”: proprio lui rischia di venire taciuto. Un rischio che alla fine si è concretizzato e oggi, a distanza di più di vent’anni dalla morte, riproporne l’opera ha, come scrisse Fagiolo nel 1965, «il sapore fresco dell’inedito».
Così vanno le vicende dell’arte contemporanea, dove il talento non basta al successo, se non è supportato da fortunate congiunture di eventi e da quella costante dedizione nell’auto-promozione professionale che Caraceni non seppe sostenere, vuoi per spigolosità caratteriale, vuoi la tendenza a un isolamento fecondo sì di riflessione creativa, ma anche tormentato da crisi depressive.
Riproporlo oggi, grazie alla volontà del fratello Elio, che ne ha amorevolmente custodito l’archivio di opere e documenti, vuol dire rievocare, nel suo profondo più vivo, una storia dell’arte che non è mossa solo da pochi grandi, da giganti solitari, ma da un complesso lavorio di ricerche comprimarie ma dignitosissime, interagenti tra loro secondo una trama dialogica fittissima, estesa alle stesse ricerche dei grandi. Questi, in fondo, sono tali in quanto hanno saputo distinguersi per la capacità di attingere a quella trama e di ricavarne il materiale da far risplendere nelle proprie realizzazioni con un carattere di esemplarità. L’esemplarità del capolavoro, che è anche opera giusta, al momento giusto, nel posto giusto.
Il primo corpus di opere che è qui il caso di esaminare è quello eseguito dopo l’arrivo nella capitale, tra il 1952 e il 1954. Esso rivela il repentino aggiornamento sui riferimenti artistici internazionali di tendenza, sotto l’egida della “sacra triade” Picasso, Mirò e Klee, cui va aggiunta la lezione locale ricavabile da Balla, Prampolini, Severini e Cagli, intorno ai quali la Roma astratta, astratto-concreta e di lì a poco informale andava sviluppando il dibattito, o meglio lo stava conducendo verso la conclusione. La conclusione altro non era che il tradurre le forme dei maestri in una versione più aggressiva, attuffata giù dagli spazi dell’idea, dell’essenza dentro la carne dell’esistenza, in quello spettro di opzioni operative segno-gesto-materia entro cui ognuno, tra gli artisti più avveduti, andava trovando la propria collocazione. In tutto ciò a Roma si agiva in sintonia con quanto avveniva a livello nazionale e con quanto era già avvenuto, con qualche anno d’anticipo, a livello mondiale.
Circostanza vuole che Caraceni vada a collocarsi proprio nel fulcro vivace della vita artistica e intellettuale romana, in quella via Margutta dove hanno gli studi, tra gli altri, Carla Accardi, Giulio Turcato, Pietro Consagra, Alberto Burri, verso i quali le prove del giovane Caraceni mostrano una certa aria di “buon vicinato”. Pesa però sul nostro la condizione di ultimo arrivato, di colui che non ha ancora concluso le tappe formative, in particolare quell’apprendistato ideale sotto i numi del momento già assolto dai compagni. Ecco allora che i dipinti dei primi tempi, che l’autore designa complessivamente con il titolo di Scherzi, quasi ne dichiarasse la portata transitoria, si inscrivono nell’ambito di un astrattismo che mantiene aperto il dossier primo-novecentesco, puntando su soluzioni sobrie, calligrafiche, tutte giocate sull’evoluzione lineare, in punta di pennello, che circoscrive elegantemente delle superfici. È la pratica del segno fluente, continuo, dell’acrobazia grafica che arriva a concludere la composizione in un unico gesto ininterrotto.

monografiaCome si vede, già aleggiano due delle parole-chiave risolutive – segno e gesto – ma la messa in atto resta sospesa in un’esilità melodica, ostinata nel preservarsi “pura” in tempi che esigono il contrario. Al proposito Fagiolo parla opportunamente di «un Klee maturato in provincia», riferimento cui va aggiunto, per lo meno, quello di Picasso, che Caraceni omaggia, nella sua ultima tentazione figurativa, di un d’après che sa di commiato, di presa di distanza, con una fisionomia mostruosa che volge verso il caricaturale, per l’appunto verso lo “scherzo”.
Eppure, nel destreggiarsi in questi primi esercizi, Caraceni è già sulla traccia dei suoi propri obiettivi. A ben vedere, essi autorizzano una doppia lettura. La prima, immediatamente evidente, è all’insegna della chiusura: la linea fende sinuosa il piano accerchiando fette di superficie, che in questo modo possono attivarsi individualmente accendendosi di tinte distinte e ben scandite, al modo in cui, al giorno d’oggi, si possono all’istante riempire di colore, con lo strumento del “secchiello”, le zone chiuse in un contorno di un disegno al computer. Ma c’è un secondo aspetto, di segno contrario, che è necessario cogliere. La linea non si limita a recintare: invece di passarla trasversalmente con lo sguardo, trovandovi l’inciampo percettivo di un confine, di una corda tesa, possiamo seguirla per il lungo delle sue circonvoluzioni. Come una vena, essa allora implica un fluire, un movimento circolatorio. Come un serpente che arriva, dopo parecchi giri su se stesso, a mordersi la coda, il circuito lineare allude al concetto di infinito, o meglio di un infinito succedersi di cicli. Se le anse non fossero un po’ allentate, si potrebbe già invocare quella nozione di «labirinto» di cui si avvarrà Calvesi a proposito dei lavori dei tardi anni Sessanta. Percorrere le vie tortuose di un labirinto, magari limitandosi a osservarne la pianta come in un gioco enigmistico, sommuove quella sottile tensione dinamica, di natura mentale, che da subito, e per sempre, Caraceni agita nei suoi lavori.
Tenendo conto di tali ripercussioni mentali, è possibile iniziare a cogliere qualche implicazione gravida di futuro nella qualità della pulizia formale. La pulizia formale, che abbiamo detto essere un residuo frenante rispetto alla chiamata dell’Informale, si riproporrà con un’opposta connotazione “progressista” dalla fine degli anni Cinquanta, quando Caraceni, stavolta in via d’uscita dall’Informale e perfettamente al passo col fronte avanzato della ricerca, sentirà il bisogno di raffreddare gli ardori materico-fenomenici per proiettarsi verso un nuovo spazio mentale. Nuovo perché non più sollecitato da mere apparizioni dipinte, impalpabili come le immagini che scorrono su uno schermo, ma da presenze tangibili: la tangibilità, si può già anticiparlo, dei chiodi e dei fili di ferro che, dopo la plastica bruciata, sporgeranno realmente dal bianco del piano, con un senso di nitida esattezza che annuncerà che l’Informale è alle spalle.

CARACENI GUGGENHEIMBruno Caraceni e Peggy Guggenheim,
Galleria Appia Antica nel 1957
Un ulteriore rimando è ravvisabile negli Scherzi: il circuito, oltre che di fluidi, può essere inteso come circuito di energia o, più tecnicamente, come circuito elettrico. In alcuni lavori, infatti, la linea è avvolta da un’irradiazione gialla, un alone luminoso; la interrompono, qua e là, alcuni pois colorati, che si posizionano come perni la dove la linea si trova a girare su se stessa, o meglio come interruttori atti ad aprire/chiudere il circuito. Caraceni ha sempre rivolto sguardi animati di fiducia verso gli ambiti della tecnologia e della scienza al fine di riceverne suggestioni da dilettante, ma preziose per l’arte. Suggestioni che un “umanista”, quale egli rimane, percepisce con tutti quei poetici misunderstandings che avvicinano la fisica all’ermetismo, le sapienze esoteriche alla ricerca scientifica più specialistica e avanzata.
In ciò sta un probabile primo influsso dello Spazialismo di Fontana, che Caraceni avrà potuto percepire già negli anni formativi veneziani, dove esso aveva trovato diversi artisti disposti ad aderirvi, distinguendosi dagli altri interpreti dell’Informale anche in virtù dell’apertura nei confronti della tecnologia e della scienza, verso le quali mantenevano alta quella fiducia che nei colleghi era crollata ai minimi storici. In ciò sta la conferma del perdurare in Caraceni di un’impostazione primo-novecentesca, nello specifico di matrice futurista, ma in grado di favorire, con gli opportuni aggiornamenti, lo slancio verso un’evoluzione oltre l’Informale.
Nella fase che stiamo esaminando, però, l’Informale resta l’approdo naturale e necessario, e infatti si comincia ad avvertirne l’imminenza quando, dalla componente grafico-lineare, spostiamo l’attenzione sulla stesura pittorica. A un certo punto la compattezza delle superfici, fino ad allora asettica, viene intaccata da rughe e porosità, che annunciano un’intensificazione fenomenica. Parallelamente la tavolozza sembrerebbe subire un drastico raffreddamento, relegata com’è al bianco e nero, quando non al monocromo nero. In realtà la sensibilizzazione cromatica non solo persiste, ma raggiunge un grado di recettività maggiore di prima, anche se certo meno appariscente, essendo affidata alle sottili gradazioni della texture, che ora si ingrossa ora si assottiglia, garantendo un efficace gioco di cangiantismi e sfumature. Conseguentemente il segno ondeggia con moti più spessi e pesanti per la resistenza opposta dalle fibre dello sfondo, come fosse un solco scavato nella corteccia.
Intorno al 1955 quelli che erano i piani cromatici hanno definitivamente “preso corpo”: un corpo dalla consistenza minerale, di strati geologici scavati, scheggiati, frantumati in un contratto saliscendi a rilievo ancora simulato – ma presto le cose cambieranno – nella tecnica pittorica. La pittura di Caraceni si è fatta irta, scabrosa, embricata di scaglie e alveoli. Tra questi si iniettano lunghe fenditure, che un tempo erano le linee e ora hanno smesso ogni ricamo curvilineo per conformarsi agli urti aguzzi delle scaglie. Resta invece inalterata la funzione, loro affidata, di approntare delle vene di scorrimento, decongestionanti, entro il tutto pieno della materia.
Si intravede anche una possibilità di lettura di più lunga gittata, che supera i motivi tipici dell’Informale per volgere verso l’artificio, verso ciò che è frutto di civiltà e non più del rapporto primario tra uomo e natura: ciò che vediamo può rimandare a delle mappe urbane, dove le linee sono strade, arterie nel comune senso cittadino. Si tratta, evidentemente, di città morte, sprofondate nel dominio di quella natura originaria cara all’Informale, dove tra ordine e disordine è certo il secondo termine a prevalere; città che Caraceni riporta alla luce come operando uno scavo archeologico, rimuovendo strati successivi di sedimenti. Eppure è ancora percepibile l’impronta dell’uomo costruttore, il fossile delle sue strutture; e la struttura, per quanto elementare, racchiude in sé l’atto della manipolazione culturale, che è messa in relazione, organizzazione di una porzione di materia che la conduce dall’opacità alla chiarezza di una funzione. Si noti che quello di “struttura” è un concetto prezioso, intorno al quale si concentreranno, di lì a poco, le nuove tendenze artistiche e non solo. Caraceni ha il merito di averlo individuato in piena autonomia, grazie alla coerenza interna del proprio percorso.
L’insieme di questi lavori va separato in due gruppi, le Zone e le Soluzioni, distinguibili queste ultime per i profili generalmente più arrotondati e la tendenza a un certo sfoltimento, in modo che emergano singoli nuclei, isolati su uno sfondo meno denso. Ma prima di seguire tale sviluppo, che già ci porterebbe al superamento dell’Informale, è necessario considerare quello che invece è ne il conseguimento più significativo: le Plastiche del 1957-1958.
Il materiale primo, che vi viene impiegato, non è un pigmento tradizionale, ma le pellicole di cellophane bruciate e incollate sul quadro. È il trionfo della materia bruta, delle pelli ustionate, desquamate, dove le bolle e le bave filanti cancellano ogni struttura, ogni segno lineare e ogni possibile rinvio a un controllo mentale-razionale. D’altro lato, si riaccendono i colori – verdi, azzurri, rossi – in quanto qualità prime della materia e del suo fenomenismo.
È evidente che le simpatie di Caraceni sono slittate dalla Roma più formale – la Roma, per intenderci, di un Dorazio – a quella più movimentista, che sottopone la forma alle ingiurie del divenire, ovviamente dominata dalla personalità d’eccezione di Burri (o magari di un Mimmo Rotella). Al proposito Fagiolo indica, per le Pastiche di Caraceni, il «derivato delle macchie sanguinanti e delle eruzioni dei Sacchi» e non delle Plastiche di Burri, che sarebbero state eseguite solo successivamente. In altre parole, la lezione di Burri indubbiamente c’è e si fa sentire, ma è così ben assimilata, con tanta intelligenza e originalità, che l’allievo, meditando sui Sacchi, sarebbe riuscito ad anticipare una delle più proverbiali invenzioni del maestro. In realtà, Burri comincia ad avvalersi della plastica combusta contemporaneamente a Caraceni, nel 1957, anche se, per il momento, non è ancora maturo il lancio della serie, ed è quindi assai arduo sentenziare delle precedenze. Certamente è suggestivo pensare che, per una volta tanto, sia l’artista “minore” a fornire l’imbeccata al maggiore. In effetti, in questa fase è Caraceni, e non Burri, a saggiare con maggior dedizione le possibilità insite nella nuova tecnica. Sussistono inoltre evidenti fattori di scarto. In Burri la materia esibisce la propria realtà straziata ma, allo stesso tempo, è inquadrata da una regia compositiva rigorosa, che impagina i vari lacerti prestando molta attenzione all’orchestrazione degli equilibri formali e alla demarcazione di pochi colori; al contrario, abbiamo detto che proprio nelle Plastiche Caraceni si sbarazza del contenimento grafico-formale e i colori, pur prossimi a quelli di Burri, soprattutto quando il rosso lavico viene surriscaldato dal contrasto con il nero, tendono a moltiplicarsi e a mischiarsi in emulsioni che traboccano dalle scandite partiture bicromatiche dell’altro.
Proseguendo con la serie, però, le cose cambiano. Notiamo infatti che le bollicine da emulsione cedono spazio a pochi grandi crateri, la cui bocca apre su uno strato di plastica sottostante inscrivendolo entro un contorno circolare, irregolare ma ben stagliato. In ciò va certamente ravvisato il modello dei crateri osservabili nei Sacchi di Burri, ma, allo stesso tempo, indipendentemente da Burri, quel che ora conta per Caraceni è trarre fuori dal magma indifferenziato dei singoli coaguli. Così egli giunge progressivamente a definire, tramite il ritorno in forze dei valori disegnativi, alcuni nuclei distinti, galleggianti nel vuoto, che ripropongono la dialettica figura-sfondo. In realtà non si può parlare di figure, ma semmai di “figurabili”, di bozzoli aperti al divenire, aurorali, metamorfici, ancora densi di materia martoriata, ma già capaci di affermare la propria presenza e, con essa, una tendenza all’oggettivazione.
A volte, per isolare il nucleo, Caraceni fa ricorso ad ampissimi passepartout, che ritagliano sulla plastica uno spiraglio rettangolare, come una feritoia o un vetrino contenente un brandello istologico. La presenza del passepartout risulta tanto impositiva che esso entra nel gioco compositivo in qualità di strato superiore, che serra la morfologia organica infliggendole la plateale violazione della misura fredda e affilata della sua inquadratura. L’Informale comincia a essere insidiato da un nuovo spirito ordinatore.
Ciò risulta altrettanto evidente se torniamo a considerare gli sviluppi delle Soluzioni, dove dal groviglio dipinto di segni e materia, che prima si estendeva indifferenziato, allover, per tutta l’ampiezza del quadro, sono state ritagliate delle sagome che riaffermano la componente del contorno e, con esso, l’intenzione di un’intelligenza strutturante, oggettivizzante. Esse vengono organizzate con buon ordine simmetrico, speculare, in alcuni casi osando addirittura la ripetizione seriale. In ciò è contenuta una netta effrazione nei confronti dell’Informale, che vorrebbe invece l’unicità incontrollata, bruciante del gesto esistenziale. E infatti si tratta di un’operazione che prepara l’abbandono definitivo di quel clima. Qualcosa del genere è riscontrabile nell’arte di coloro che presto si dirigeranno verso sbocchi pop, chiassosamente figurativi, iconici, basti pensare a un Concetto Pozzati, nei cui dipinti nuclei simili vengono disposti su dei ripiani, allusivi di un frigorifero o dello scaffale di un supermercato.
Caraceni, da parte sua, per nulla interessato ad arrivare a definire delle icone, mira alla nozione astratta di struttura che, esattamente come le immagini pop, non ha più niente a che vedere con la natura informale. Così il costituirsi per strati sovrapposti di molta sua arte vira, a un certo punto, verso un modello razionale-tecnologico in contrasto con quello naturale, geologico o organicistico. In alcuni di quegli stessi lavori dove lo strato superiore è dato dalla cornice rettangolare del passepartout, quello inferiore è costituito da un retino metallico, che rivela l’orditura a quadretti, geometrica e modulare, che sorregge le pelli bruciate. In fondo agli strati, Caraceni scopre una griglia che rimanda vuoi all’universo mentale-razionale, vuoi a quello meccanico-artificiale. La plastica non è più un analogo della pasta organica, ma vale per la sua natura, ora pienamente svelata, di prodotto industriale.
volantino cavallinoVolantino per una mostra alla Galleria del Cavallno di Venezia del 1960Nel 1959 Caraceni giunge all’acquisizione tecnica che costituisce una delle sue invenzioni più convincenti, il filo di metallo. In via preliminare accade che gli squarci aprano su un’ossatura che non è più costituita dal retino, che ha il limite della bidimensionalità, ma da un intreccio di fili metallici, fissati a diverse altezze su chiodi, che muovono, spingono, fanno sporgere le pelli di cellophane con discreto aggetto spaziale. Ne risultano strani nidi di insetti, dove il riferimento naturale è ancora una volta contraddetto dal lucido sentore di artificio, come se si trattasse di bozzoli deposti da fantascientifici esseri ibridi, i cui processi organici sono simulati da dispositivi meccanici.

Altrove – ed è la soluzione sui cui Caraceni punterà di più – il filo metallico permette di recuperare la modalità grafico-lineare tanto importante nei primi lavori, in modo che essa balzi fuori dalla superficie in qualità di inserto reale, di strumento oggettivo, dotato di altrettanta evidenza e concretezza rispetto alla plastica. I mezzi di espressione pittorica sono stati così sostituiti, uno dopo l’altro, da realtà dure e concrete, preesistenti all’artista, che decretano la fine del soggettivismo informale, libero di plasmare la materia amorfa, istituendo invece la pratica dell’assunzione, da parte del soggetto, di un oggetto già definito.
In tali occasioni il filo non vale più come substrato, come sostegno delle pelli, ma provvede a intrecciare un tessuto spaziale, una struttura di relazioni tra i nuclei che ancora, per un certo tempo, persistono. Ancora una volta si può tirare in ballo il riferimento a Burri, i cui sacchi sono attraversati da spaghi grossolani, che suturano gli squarci o semplicemente solcano la composizione disegnandovi andamenti zigzaganti. Ma per Caraceni la loro funzione comincia a essere molto meno sensuale e più mentale: il filo registra, visualizza schemi di interazione tra le forme, rapporti reciproci, sintassi di legami interni. Esso attiva il circuito. Magari, potremmo immaginarci di percepire il ronzio di una vibrazione sottile emessa da quei collegamenti a rete, come quello che ci dice che un elettrodomestico è in funzione, che nei suoi congegni scorre l’energia.
Inoltre, se consideriamo che il filo invita lo sguardo dello spettatore a seguire il suo andirivieni, cogliamo un certo avvicinamento alle indagini di tipo “optical”, interessate all’analisi della percezione: l’opera si dichiara, testualmente, come campo visivo, in cui il filo, equivalendo di fatto al percorso dell’occhio dello spettatore, rappresenta il grafo del processo del vedere. Più che mai la linea-oggetto veicola una mobilità, come un sismogramma – i futuristi avrebbero parlato di “linea-forza”. Tale potenzialità è chiaramente esplicitata dal titolo complessivo della serie, Gesti, termine che abbiamo visto rientrare nel gergo dell’Informale, ma che qui compare drasticamente spolpato di corporeità per andare a intendere, in modo assai più speculativo, la sollecitazione della dinamica micro-fisica implicita nell’atto ottico-percettivo – potremmo parlare di rapid eye movement.
Frattanto, coerentemente, la presenza materica o anche solo cromatica dello sfondo si fa sempre più esile, più dilavata, fino a scomparire del tutto nella purezza del monocromo bianco, solo immaterialmente segnato dalla ragnatela delle ombre proiettate da fili e chiodi. Tale purezza – siamo alla vigilia degli anni Sessanta – volge all’accettazione del fatto che il nostro campo d’azione, il nostro environment è stato ripulito dalla scienza e dalla tecnologia, dal boom dell’artificio. Come afferma Calvesi: «Il suo idolo è la tecnica, la tecnica come pulizia, la tecnica come calcolo, la tecnica come integrale artificialità, e la tecnica è azione. Ma il gesto di Caraceni non fa clamore; e se l’azione non s’estroverte, resta la tecnica come puro dato di sé, che ricama entro i suoi limiti; che s’introverte in se stessa per diventare un pensiero ossessionante e suicida». Scegliendo di non imboccare la via pop all’icona, Caraceni mira, a monte, a carpire la scintilla inventiva grazie alla quale l’uomo si fa ideatore e programmatore, fa funzionare la propria dotazione logico-razionale in vista di una qualche applicazione, di un qualche intervento nel reale. Al proposito, nei suoi appunti scritti di getto leggiamo: «io ho scelto il filo come simbolo per me e direi che è proprio il simbolo della nostra epoca – dalla memoria come potrei dire dalla memoria agli itinerari invisibili degli aerei alle calcolatrici elettroniche insomma l’uomo ha tentato tenta di segnare su un filo tutte le sue attività […] le ultime cose in musica sono esclusivamente inserite su un filo – un filo magnetico – parlo di musica elettronica in questo caso».
Ogni ricordo della sensualità di Burri è alle spalle. Semmai, come sostiene Fagiolo, può valere il riferimento alle prove più secche di Fontana, in particolare ai Tagli, dove lo spiraglio non è solo nella fisicità della tela-oggetto, ma anche in una nuova dimensione, concettuale più che spaziale, del fare arte. Inoltre qualche similitudine la si può riscontrare soprattutto nei confronti di coloro che all’epoca, a Milano, stanno raccogliendo la lezione di Fontana per andare a modellare, concretamente, il piano pittorico secondo geometrismi lucidi e modulari, azzeranti il dato cromatico, quali Enrico Castellani, Agostino Bonalumi, Gianni Colombo, Enzo Mari. Oppure, a Roma, dove sono all’opera Francesco Lo Savio, Giuseppe Uncini, Fabio Mauri. Con la differenza che Caraceni lascia palesi quei sostegni che generalmente, negli altri, agiscono al di sotto della tela.
Ma la maggior differenza rispetto a questi, e ancor di più rispetto ai vari esponenti dell’Optical Art e dell’Arte programmata, consiste nel fatto che lo scientismo di Caraceni è soggetto a un’attrazione ossessiva per la complessità aberrante, fuori norma, per la matematica delle grandezze irrazionali. Questa irriducibilità viene evidenziata da Calvesi quando scrive: «Caraceni intesse con i suoi “fili” sillogismi d’una gran lucidità che va come a vuoto; è la certezza di Cartesio e di Mondrian che si snerva nel non-senso di dada».

caraceni treviBruno Caraceni
alla mostra di Trevi del 1965
Ne abbiamo una manifestazione esemplare nella dialettica ordine/disordine inscenata nella serie delle Mappe, multipli che mostrano organizzazioni complesse, sorta di piante catastali dove le strutture squadrate sono le unghiate che l’uomo geometra e costruttore infligge sulle anse irregolari del paesaggio. Vi è analizzata, in modo libero e allusivo, la modalità in cui l’uomo si insedia in un territorio adattandosi alle plaghe sbilenche concesse da campi e corsi d’acqua e propagandovi la propria geometria.
Si tratta di una Land Art di carta, racchiusa in progetti, in spartiti da eseguire mentalmente. In genere l’arte di Caraceni si auto-impone il freno di non infrangere la modalità del quadro, rinunciando ad affrontare l’azione a tutto campo nell’ambiente reale. In fondo, l’indubbia spinta all’eversione fin qui riscontrata è pur sempre contenuta entro brevi sporgenze o avventure puramente mentali, che non superano la virtualità. Questa riesce sempre a riassorbirle, a contenerle entro i confini fissati dalla cornice.
Risultano allora di estremo interesse alcuni lavori, abbastanza esigui come numero ma tali da rappresentare il picco più avanzato della ricerca di Caraceni, in quanto vi è vinta la soggezione al quadro. Alcuni di essi rientrano a pieno titolo nella serie dei fili e, a dire il vero, non ne costituiscono che uno sviluppo tridimensionale poggiante su un ritrovato semplicissimo: far correre il filo anche sul retro del quadro, o meglio abolire la differenza stessa tra recto e verso offrendo lavori perfettamente double-face, che affondino nello spazio la propria consistenza di oggetto sottile, come una lama, ma effettivo e integro. In un’occasione Caraceni tenta un ulteriore sviluppo in direzione spaziale, che lo porta a conquistare una tridimensionalità piena, anche se ottenuta sempre muovendo dal piano. Egli collega tra loro quattro Gesti a formare un cubo con due lati aperti, attraverso i quali è possibile osservare le facce interne intricate di fili. Si intende che in un lavoro del genere la tensione ambientale resta incompiuta, poiché non osa cimentarsi nell’impegno richiesto da una vera realizzazione in grande, a tutta scala, e se ne sta contratta allo stadio di bozzetto. Eppure tale tensione è espressa chiaramente grazie alla riproduzione fotografica, nella quale Caraceni ha voluto che il suo cubo inquadrasse una fetta di paesaggio urbano e così apparisse grande come un’architettura, o addirittura come se si trattasse di quello che sarà l’arco parigino della Défense.
Realizzazioni straordinarie, e perfettamente compiute, sono gli Angolari, dei quali purtroppo non rimane che la documentazione fotografica. Si tratta di lamelle triangolari, variamente sagomate e colorate, che vanno a inserirsi come mensole, in combinazioni libere, negli angoli interni delle pareti di un ambiente, modificando la percezione della sua struttura, o meglio indagandone le zone di tensione dinamica, di incrocio tra forze: non a caso i disegni preparatori ci rivelano che tali lamelle sono sviluppi planari delle solite linee-forze. Nei suoi appunti, stesi in vista della richiesta di un brevetto, Caraceni non vi esclude affatto una finalità pratica, conforme all’aspirazione ambientale che è anche aspirazione a produrre oggetti effettivamente vivibili e fruibili. Egli dichiara che dagli Angolari «deriva visualmente un “tutto omogeneo”, che unisce alle qualità ornamentali possibilità di adattamenti di uso pratico. […] Possono essere utilizzati sia come supporti per oggetti leggeri, sia come lumi, sia come contenitori, o altro».
Le Strutture-labirinto presentano il rilievo di elementi industriali di plastica, prestampati, che vengono sfruttati per animare lo spazio a ridosso della superficie in modo molto raffinato, con il risultato però di rientrare nella gabbia del quadro. Vi è esibita una modularità basata sulla reiterazione di escrescenze elementari, perfino banali, capaci però di dar luogo a texture imprevedibili, pulsanti nell’uniformità monocromatica, per lo più bianca, meravigliosamente sensibilizzata dal disegno cangiante delle ombre. Torna anche l’analogia con la creatività naturale degli insetti, rappresentata nel caso specifico dall’alveare, o magari con quella geologica dei cretti, ma data in negativo, con inversione tra i pieni e i vuoti. Nel che Caraceni centra pure un nuovo, originale parallelismo con Burri.
Con ciò si conclude la parabola più sperimentale dell’arte di Caraceni, che al volgere degli anni Settanta si dedica alla pratica del multiplo, già collaudata con le Mappe. Se di per sé il multiplo è emblematico della contestazione dell’unicità dell’opera d’arte fatta a mano a favore di metodologie in odore di design industriale, è anche vero che esso ci riporta per intero entro la bidimensionalità più canonica. Per il resto, la fattura si adatta in tutto e per tutto al carattere anonimo dell’immagine seriale, appena ravvivata da qualche scrittura a mano, con i colori che sfoggiano i toni saturi e compatti delle vernici tipografiche. Ne risulta un campionario di motivi astratti, quasi dei pattern preconfezionati, tra cui ritroviamo la linea sinuosa a labirinto, o misteriosi pittogrammi organomorfi (forse un ricordo di Capogrossi?), oppure ancora gli andamenti spezzati che erano dei fili. Sono i lavori di Caraceni che più si avvicinano all’ortodossia dell’Optical Art, con tanto di ambiguità percettive tra figura/sfondo, superficie/rilievo, linea/colore, ma forse con il limite che l’estremo rigore di mezzi rischia una certa ridondanza, avara di sorprese.