Il nostro Museo, come abbiamo già detto, é diviso in due sezioni, una for­mata dalle opere di proprietà del Mu­seo stesso, l'altra costituita dalla «rac­colta» o «lascito» del conte Emo Ca­podilista. Già il solo fatto di questa as­surda divisione (non basterebbe appli­care opportunamente targhette sui dipinti?) si riflette in modo negativo sulla disposizione delle opere; ma il peg­gio é che mentre la sezione delle opere di proprietà del Museo é aperta al pub­blico e agli studiosi, la raccolta Emo Capodilista è chiusa e ben tappata co­me se già non fosse convenientemente ordinata; eppure non sono poche le opere di buona pittura, e addirittura gli autentici capolavori, che in tal mo­do devono rimanere invisibili ai più a dispetto della ragione e del diritto alla vita delle opere stesse e con danno della cultura artistica.

E il caso di domandarsi: a chi, o a cosa, é da ascrivere questa stranezza? forse a quegli stessi eredi che vigilano sull'assurdo isolamento della collezio­ne dalle altre opere?

Ma già che siamo sul tema delle incongruenze e ristrettezze cui é sottopo­sta la vita del nostro Museo, vogliamo porre una domanda che speriamo non resti senza risposta: quando potrà di­sporre, l'amministratore del museo, dei mezzi sufficienti alla riapertura della sezione della ceramica, di quella delle stampe, e della sezione archeologi­ca? Pensiamo che dal Comune debba venire la prova di un minimo di buona volontà sotto forma di quei tali mezzi finanziari (e non si tratta di gran cosa) che soli possono dare la misura di que­sta buona volontà.

Ma è tempo che diciamo anche sommariamente delle opere stesse che arricchiscono il nostro Museo. Ne usci­rà, ne siamo certi, un panorama senz'altro notevole, a dispetto della poca rinomanza, goduta dal nostro museo, presso la più gran parte della cittadinanza.

E inizieremo dalla raccolta o lascito Emo Capodilista, che comincia con una sala divisa in due, ricca di una serie stupenda di piccoli paesaggi del Di­ziani. Notiamo poi un bel ritratto del Porlus ed uno anonimo, del 1700, oltre ad una serie di fastosissime piccole bat­taglie con barocchi e caracollanti ca­valli. E, via via, ritratti francesi, tra i quali un Luigi XIV fanciullo, e nature morte del Seghers, e due ritratti del Re­nieri. Poi, pure nella discendenza cara­vaggesca, un'anonimo ritratto di sin­golare bellezza; e «il guerriero », anco­ra caravaggesco, attribuito a Salvatore Rosa; e opere e ritratti di Piero Vec­chia e del Padovani e scuola, e della Scuola del Veronese, ed altre opere ve­nete del XVI secolo. La saletta dei ri­tratti comprende un ennesimo buon ri­tratto di Paolo III papa, e tavole di fiamminghi del XVI secolo. Segue una saletta di «madonne» venete del XV e XVI secolo, e quindi, la sala degli stra­nieri, con un forte ritratto del Mem­ling, e un ritratto tedesco di Carlo V, e il tizianesco ma gentile e sobrio ritratto muliebre di Irene da Spilimbergo.

Queste e altre opere veramente pre­gevoli costituiscono la raccolta Emo Capodilista, opere che in una più ra­zionale distribuzione con quelle di pro­prietà del Museo, porterebbero ad una fisionomia insospettabilmente alta il nostro Museo cittadino, che in realtà possiede in quella raccolta il suo nu­cleo più poderoso, anche come qualità artistica.

E ci limiteremo ad un'elenco, per sé arido, di nomi ed autori e opere, capa­ci da sole di fare del nostro Museo un organismo di grande importanza nella vita artistica della nostra città e della regione.

In questa seconda sezione, si nota anzitutto un autentico Cristo del Giot­to già agli Scrovegni, e poi le trecente­sche tavolette di scuola veneziana. Indi le due salette del Guariento, questo fia­besco narratore cittadino tutto intriso di bizantinismi estremamente preziosi.

E ancora tavole veneziane del '300 e del '400, secolo quest'ultimo ampiamente rappresentato, non soltanto da opere autentiche del Giambellino e della sua scuola e seguaci, e dalla inverosi­mile quanto traballante pala dello Squarcione (gran maestro piuttosto di prospettiva e affarismo quanto scialbo operaio di pennello), ma soprattutto dai tre affreschi staccati del Mantegna, che danno un tono di singolare altezza a questa scuola del nostro rinascimen­to cittadino; e dallo stupendo affresco della Madonna col bimbo, già attribui­to al mantegnesco Giorgio Schiavone.

Presente ancora questo secolo veramente prodigioso con una tavoletta di Jacopo Bellini, il «Cristo che scende nel limbo », e «Gli Argonauti », tavo­letta Ferrarese ora attribuita al grande Roberti. Da ammirare ancora il ritrat­to virile già attribuito all'Antonello; per arrivare alle piccolissime e deliziose tavolette del Giorgione giovane, alle cassapanche staccate ora attribuite a Tiziano giovane, alle ultime opere del Bellini e dei suoi seguaci e imitatori, al ritratto muliebre di Palma il Vecchio.

Altre opere di notevole valore arti­stico, i rari visitatori possono contem­plare nel nostro Museo: ricorderemo fra tutte «il giovane» Corta già attri­buito al Torbido e ora al Morto da Fel­tre, che operarono nella grande sfera del Giorgione: é opera di singolare sug­gestione per le tonalità dorate e soffuse che tutto avvolgono. Ricorderemo infine le autentiche opere del Tintoretto e del Veronese, e i ritratti tizianeschi.

Non é del resto in questo luogo che dobbiamo fare né un catalogo né una monografica guida artistica del nostro museo.

Il nostro compito é di far conoscere alla cittadinanza quale tesoro possegga nel Museo Civico, e come da esso po­trebbero irradiarsi nuovi stimoli di vita culturale e artistica.

Gli amministratori della nostra cit­tà dovrebbero capire che un po' di de­naro speso per la vita del nostro Mu­seo, per la cultura della nostra città può e deve essere considerata come una delle spese più positive e feconde di risultati.

Noi pensiamo che una certa atten­zione da parte dei nostri amministrato­ri unita all'azione coscienziosa che sta svolgendo il Direttore del Museo, e con utili iniziative che dovrebbero essere prese dalla parte più interessata della cittadinanza, potrebbe far sì che il Mu­seo Civico entri a far parte, come ele­mento attivo, della vita della nostra città, laddove sinora non é che un cimi­tero di capolavori.