In un mondo come il nostro, basato su trasmissione di segnali codificati al massimo, è solo il segnale che emerge, l’eccezione, che comunica veramente. L’eccezione ai codici usati e usuali, non l’eccezione in quanto eccezionalità, poiché nell’attuale condizione di meraviglie tecnologiche l’eccezionale è diventato una costante che ha generato assuefazione anche alle imprese eccezionali, al punto da ridimensionarle come normali, o meglio come di normale attesa.
Pertanto in un universo culturale in cui si tende sempre più alla pianificazione ed alla riduzione dell’individuo all’anonimato della massa, codificando mezzi e metodi atti a meglio gestire le coscienze individuali, colpendole nelle loro zone interdipendenti, cioè quelle più 01esposte all’amalgama collettivistico, l’unica via per un rapporto concreto, e in quanto tale dialettico, con la realtà è negarsi a questo tipo di «logica» disumanante. Cercare cioè di recuperare una logica umana che è quella che riconduce al loro giusto posto le tendenze irrazionali come qualità indispensabili dell’essere, nell’ambito della dialettica dell’esistenza individuale, e non come debolezza da sfruttare nell’ambito dell’annientamento del pur minimo margine della libertà individuale.
Lo strumento per realizzare questo processo è una peculiarità dell’essere umano: la Fantasia.
La fantasia, in quanto immaginazione attiva, è l’unico strumento utile per attuare una simile condizione. Solo attraverso la fantasia, già esaltata da Quintiliano prima e da Cennino Cennini poi, si può comprendere e possedere la realtà, in definitiva essere reali; solo con la fantasia si può sfuggire alla reificazione cui ci vorrebbe ridurre la società in cui operiamo.
Sin dal 1916, nel suo saggio La struttura dell’inconscio, Jung sosteneva che «la fantasia … rimane pur sempre la matrice creativa di tutto quello che ha reso possibile il progresso dell’umanità. La fantasia ha un suo valore intrinseco e irriducibile, in quanto funzione psichica radicata sia nella coscienza che nell’inconscio, sia nell’individuale che nel collettivo»
La fantasia, dunque, è la ragione dell’uomo, e ci distingue dagli altri esseri viventi.
Ecco perché fu giusto nel 1968 lo slogan politico rivoluzionario «l’immaginazione al potere» con la sua variazione «tutto il potere alla immaginazione». Forse, nonostante la sua usuale identificazione terminologica di immaginazione e fantasia, era più esatto dire «la fantasia al potere» e «tutto il potere alla fantasia», in quanto la fantasia è appunto immaginazione attiva.
Parlare di fantasia riguardo all’arte è una tautologia: l’arte non c’è se non c’è fantasia, ed è innegabile che nell’opera di Sarhtori la fantasia sovrasti sovrana.
Sarhtori utilizza tendenze tra loro opposte in seno all’arte figurativa contemporanea, come dimostrato dai lavori presenti in questo 06catalogo, e che possono essere divise in due gruppi: da una parte abbiamo il riferimento ai grandi maestri del surrealismo, René Magritte in primo luogo ma anche l’italiano Angelo Conte, cioè in una tradizione ormai “classica” che lascia ampio spazio all’interpretazione personale dello spettatore, con utilizzo di immagini volutamente enigmatiche e/o fuorvianti. Altra importante parte viene dedicata dall’artista allo studio della personalità umana, in particolare il volto, con soluzioni creative innovative, ed un intelligente uso del collage, tecnica che in Italia non viene molto apprezzata, e che ha un suo caposcuola in Gianpaolo Berto.
Artista e pensatore, Sarhtori dedica la propria opera in questa seconda parte all’uomo
Nulla è come sembra, Akira Kurosawa nel film Rashōmon (1950) ha ampiamente dimostrato che la verità non esiste, ma questa espressione indica chiaramente la posizione dell’artista del fantastico, come Sarhtori è in quella che è forse la sua produzione più interessante. Nell’arte esistono infiniti modi per rappresentare la realtà, la visione dell’assurdo rientra a buon diritto fra questi, ed ecco che alla realtà giornaliera è possibile contrapporre un’altra realtà, non meno reale. Quindi l’assurdo non fa parte di una «altra realtà», ma è solo un aspetto della realtà, forse sconvolgente, forse sfuggente ai canoni della logica razionale, ma non per questo meno rivelatore di alcuni aspetti della realtà.
Avete presente il “Principio di indeterminazione” di Heisenberg?
Nelle opere fantastiche di Sarhtori è possibile individuare una duplicità di strade: una dove Sarhtori usa la fantasia come un cannocchiale in iperscrutazione dell’universo una seconda dove la fantasia è utilizzata come un iposcopio che cerca all’interno dell’IO, fin nei recessi dell’inconscio (i volti ed i collage).
“Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia.” (Erasmo da Rotterdam)
Anche nell’irrazionale c’è dell’irrazionale: si applaude a chi afferma di parlare con la Madonna, magari ad orari prestabiliti, e si rinchiude chi afferma di avere visioni da altri mondi. Eppure, afferma Sarhtori in una sua opera A volte anche DIO passeggia preoccupato (2009)
Sarhtori crea opere in cui la bellezza ha un significato proprio e autosufficiente, e tale da organizzare la struttura dei pensieri e delle sensazioni dello spettatore, aumentandone la ricettività.
Molto sentito da Sarhtori pare essere il tema della solitudine, che è, indubbiamente, un tema consueto nella letteratura e nell’arte, e Sarhtori lo ripropone con occhi nuovi, non motiva lo stato delle proprie figure con segni esteriori, e non dà nemmeno delle motivazioni interiori. Sarhtori si limita a segnalare un problema, come in Enigmaticità (2009) o in L’eterna pazienza del tempo (2009), o ancora in Le cose che non ti ho detto (2012) e Prigioniero di colpe che FORSE non ho (2017)
09I ritratti di Sarhtori, solitamente limitati al volto, costituiscono dei veri e propri incubi ad occhi aperti. Da un lato potrebbero essere letti come incubi storici, da un altro potrebbero anche essere memorie autobiografiche. Più che rappresentazioni compiute di avvenimenti si tratta di evocazioni e visioni frantumate, di brandelli di memoria cui si mescolano episodi come se il passato si rovesciasse sul presente. In effetti l’opera Per ora … io resisto (2017) fa pensare a riferimenti di memorie di torture, di fame e di miserie, memorie piene di orrore.
Sarhtori riesce a rappresentare tutto questo solo con piccoli segnali presenti sui volti: una lacrima forse, in Across this night (2012), forse lividi o segni di tortura in Dettagli n.1 (2013) o nella serie Tutti giù per terra (2017), gli occhi scavati, forse orbite vuote di Le cose che non ti ho detto (2012) o di Il senno di poi (2010). Lo sguardo perso della figura dietro le sbarre, forse un autoritratto, di Prigioniero di colpe che FORSE non ho (2017).
Ciò che caratterizza le opere di Sarhtori è lo spirito con cui esse sono state concepite, in quanto opere d’arte il loro valore è in funzione sia del potere visionario di cui l’opera è testimone, sia del segreto di una simbologia che l’opera porta in sé.
Quello di Sarhtori è un percorso artistico che, portandolo ad ampliare costantemente il novero delle immagini e dei temi, lo ha inevitabilmente condotto a realizzare opere dal forte contenuto filosofico